Giorgia Meloni in un convegno alla Camera ha rilanciato la proposta del Governo di fare eleggere direttamente il Presidente del Consiglio, rendendo evidente un tentativo di coinvolgere settori dell’opposizione richiamandone posizioni e proposte presentate in tempi molto diversi.
Non è questione da sottovalutare ed è prevedibile che questo atteggiamento tornerà con forza nella campagna elettorale per il futuro referendum costituzionale sulla proposta del Governo. Per essere evitato il referendum ha bisogno che una parte dell’opposizione voti questa proposta del Governo, per arrivare ai 2/3 dei parlamentari – nella seconda lettura – a distanza di almeno tre mesi dalla prima approvazione, come prevede l’articolo 138 per le modifiche della Costituzione.
Va sottolineato anzitutto che tutte le citazioni che vengono portate a conferma della presunta bontà delle proposte del Governo sono proposte avanzate durante i lavori di commissioni bilaterali o sedi simili, quindi con una presenza importante delle opposizioni dell’epoca. Infatti tutte queste occasioni, pur diverse tra loro, sono state istituite con un accordo tra maggioranza ed opposizione dell’epoca per modificare in punti più o meno rilevanti la Costituzione, interpretando in modo estensivo l’articolo 138 che invece prevede modifiche precise e puntuali, come ha sempre sostenuto il prof Alessandro Pace. Queste occasioni hanno sempre lavorato per un’ampia convergenza, come dovrebbe avvenire quando si vuole modificare la Costituzione.
La proposta del Governo Meloni per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio ha un’origine ben diversa. Infatti è un succedaneo del programma elettorale della destra che prevedeva il Presidenzialismo e non il premierato. La proposta di legge del Governo è stata presentata con le sole firme di Meloni e Casellati e anche le modifiche al testo iniziale sono state decise unilateralmente da una ristretta cabina di regia dei leader di maggioranza.
L’opposizione non ha avuto alcun ruolo malgrado molte controproposte ed emendamenti. Le modifiche sono state decise dalla sola maggioranza. L’impostazione e il percorso della proposta al Senato non hanno nulla delle caratteristiche di precedenti tentativi di modifiche costituzionali. E’ un’iniziativa unilaterale del Governo, che decide unilateralmente anche le correzioni. Quindi il testo finale risponde agli obiettivi della maggioranza di destra a trazione FdI, le opposizioni non hanno avuto alcun ruolo di merito se non opporsi con tutte le loro forze. Perché parte delle opposizioni dovrebbe aggregarsi alla maggioranza nell’approvazione del premierato al solo scopo di evitare il referendum costituzionale, rinunciando al pronunciamento delle elettrici e degli elettori?
Eppure limitati settori dell’opposizione sembrano interessati ad entrare nella partita, per evitare un’eccessiva incoerenza chiedono modifiche non decisive alla proposta. Se volessero chiedere modifiche sostanziali dovrebbero chiedere di eleggere il parlamento in modo separato ed indipendente dal Presidente del Consiglio e scoprirebbero il legame indissolubile che ha per la maggioranza l’elezione diretta del Presidente del Consiglio con una legge elettorale con premio di maggioranza.
Nessuno ha finora chiesto di azzerare tutto, ripartire da capo e costituire una commissione bilaterale, o un’iniziativa simile. E’ prevedibile che le destre non accetterebbero alcun azzeramento perché puntano ad usare il vantaggio del premio di maggioranza regalato alla destra dalla legge elettorale incostituzionale in vigore, che ha concesso loro un premio di maggioranza del 15 % che ha trasformato il 44% dei voti nel 59% dei parlamentari. Forti di questo risultato, che è dipeso non da loro meriti quanto da un’opposizione che ha deciso di perdere le elezioni, forse senza rendersi conto completamente delle conseguenze politiche.
Subiamo oggi le conseguenze di errori imperdonabili, il maggiore dei quali è stato non cambiare una legge elettorale incostituzionale quando era ancora possibile, prima delle elezioni. Dopo è stata una slavina spaventosa.
Insofferenza verso la Costituzione del 1948
Il premio di maggioranza è la clava che le destre usano senza ritegno e possono contare su un patto di potere che, per ora, conviene a tutti gli attori e questo spiega perché Giorgia Meloni abbia deciso di sfruttare condizioni parlamentari favorevoli.
Spinge le destre a cambiare la Costituzione, in particolare FdI, una sofferenza storica verso la Costituzione democratica ed antifascista del 1948. E’ evidente la sofferenza verso le richieste di accettare l’antifascismo, che ricevono ogni volta risposte contorte e inconcludenti. Senza sottovalutare che in aree delle destre ci sono perfino espliciti richiami al fascismo come è capitato con un candidato in un comune pugliese. Uscire dalla piattaforma di principi, diritti, organizzazione democratica dei poteri sancita nella Costituzione del 1948 è un modo per ottenere una diversa fonte di legittimazione, per transitare in quella che Giorgia Meloni definisce la terza repubblica.
In sostanza l’obiettivo di FdI è trovare un’altra fonte di legittimazione, anche per questo non viene scartata la possibilità di arrivare al referendum. Anzi la tentazione è di arrivarci in modo da ottenere una diversa fonte di legittimazione sia dalla modifica della Costituzione che dalle elezioni, nella convinzione che allettare con l’elezione diretta dal capo del governo possa supplire a tante frustrazioni delle elettrici e degli elettori, dimostrate dal crescente astensionismo elettorale.
La disaffezione dal voto in Italia è arrivata ormai alla metà dell’elettorato e la discesa continua, questo restringe la partecipazione ad aree sociali coinvolte per tante ragioni, anche da quelle poco nobili. Il punto centrale di intervento delle opposizioni attuali dovrebbe essere restituire agli elettori la scelta diretta dei parlamentari da eleggere, in modo da ricostruire un rapporto tra eletto ed elettore che da almeno 20 anni in Italia è stato spezzato. Quindi a Giorgia Meloni che propone l’elezione diretta del Presidente del Consiglio va risposto con la proposta di fare eleggere direttamente tutti i 600 tra deputati e senatori.
La scelta diretta dei deputati e dei senatori da parte degli elettori sarebbe una svolta che ricostruirebbe un rapporto tra eletto ed elettore. Invece Meloni chiede suadente agli elettori volete decidere voi chi governerà o lasciare decidere i vertici dei partiti e tutto questo proprio da parte di chi è Presidente del suo partito, del suo partito europeo nonché Presidente del Consiglio. Questo ricorda da vicino la favola del lupo (Meloni) e dell’agnello (elettorato). In questa scelta rientrano pulsioni antiche, con radici evidenti nel ventennio, legate al capo che deve decidere, e pulsioni più recenti derivanti dalla pressione di gruppi finanziari internazionali e da un modo di intendere la decisionalità mutuato dalle imprese come se l’Italia di oggi fosse un’azienda, ignorando completamente la complessità della struttura sociale, culturale, economica.
Tutto viene semplificato e ridotto a decisionismo senza qualità. A questo si aggiunge il mito del Governo che decide come soluzione di tutti i mali del paese, fino ad affermare che un governo con un mandato per 5 anni sarebbe incline ad una visione meno contingente, trascurando il fatto che questo riguarda anzitutto il ruolo dei partiti che debbono porsi il problema di una visione di lungo periodo, mentre oggi non è così, questo è un altro capitolo decisivo della risalita della partecipazione democratica nel nostro paese.
Si sottovaluta un problema di fondo: il rapporto tra politica, società ed economia. La semplificazione che porta tutto il potere decisionale nelle mani del Governo e in particolare del Capo del Governo è falsa, è un sistema decisionale autoritario e accentrato. Infatti come si vede dal progetto di legge del Governo se si punta ad un parlamento subalterno, al traino del Capo del governo è inevitabile che la sua caduta porti con sé una crisi istituzionale e quindi nuove elezioni, con il rischio che la crisi anziché risolversi si ripeta anche con le nuove elezioni. Paradossalmente mentre in un sistema parlamentare la crisi di un governo è risolvibile, come hanno dimostrato i Presidenti della Repubblica che si sono succeduti, e la legislatura può proseguire, in un sistema di Capocrazia come quello proposto da FdI il risultato è che la crisi di un governo diventa automaticamente la fine anticipata della legislatura, del resto a questo punta Fratelli d’Italia.
L’opposizione invece…
La proposta del Governo è stata presentata nel modo peggiore, con un piglio impositivo inaccettabile ma soprattutto è il merito che la rende inaccettabile, per questo sono incomprensibili i tentativi di limitarsi in modo subalterno a suggerire miglioramenti, peraltro non richiesti.
Nell’area dell’opposizione ci sono difficoltà a decidere una posizione di netta contrarietà, anche se va sottolineato che le posizioni ufficiali dei partiti di opposizione sono state meglio dei fremiti che li agitano, vale in particolare per il Pd, per il M5Stelle, per AVS, altri hanno avuto posizioni possibiliste. La stessa questione si è posta sull’Autonomia Regionale differenziata nella quale le regioni richiedenti l’attuazione erano tre, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna e salta agli occhi che la posizione di quest’ultima era innaturale. Per di più il Presidente del Consiglio che pensò bene di stipulare i preaccordi con le tre regioni, malgrado fossero gli ultimi giorni di vita del Governo, era Gentiloni, altro esponente Pd. Questo conferma che la confusione politica nel Pd nel periodo post renziano era notevole. Anche il M5Stelle non era senza confusione visto che a partire dal Conte 1, proseguita nel Conte 2, l’autonomia regionale differenziata era entrata nei collegati alla legge di bilancio con contenuti preoccupanti e con una Ministra leghista a sovraintendere.
Era evidente che occorreva togliere la questione da un terreno scivoloso del tipo ma “voi avevate accettato” per porre una posizione politica che superasse di slancio sul piano del merito e dei comportamenti, in modo tale da superare posizioni precedenti. Per questo è stato importante che il Coordinamento per la Democrazia costituzionale presentasse al Senato una legge di iniziativa popolare che, forte di 106.000 firme, che ha aiutato i partiti impigliati in un passato recente a smarcarsi e a prendere una nuova e chiara posizione. Il risultato più importante è avere aiutato i partiti che avevano avuto degli sbandamenti a riconoscerli e ad assumere una nuova, credibile e diversa posizione di forte contrasto al ddl Calderoli.
Posizioni appagate dalla sola critica al passato non avrebbe aiutato un’evoluzione per assumere nuove e forti posizioni contrarie, uscendo dal cono d’ombra dei tentativi del Governo di trovare contraddizioni tra i comportamenti precedenti e quelli sul ddl Calderoli. In sostanza è stato tolto un argomento decisivo di polemica alla maggioranza e sono state liberate le energie delle opposizioni. Emblematico è che risulta la Regione Emilia Romagna abbia ritirato la sua richiesta. Oggi la contrarietà delle opposizioni parlamentari principali è abbastanza netta.
La stessa evoluzione è necessaria sull’elezione diretta del Capo del governo. Alcuni si attardano in vecchie valutazioni sul ruolo del governo e su un presunto bisogno di decidere, dimenticando che ormai da molti anni è il parlamento ad essere espropriato dei suoi reali poteri, anzitutto perché non viene scelto dagli elettori ma dai capi partito a cui rispondono.
Il vero problema del futuro della democrazia italiana è l’astensionismo che rischia di diventare la tomba della democrazia che abbiamo conosciuto e che la Costituzione ha sancito. E’ vero che anche a sinistra non ci si è risparmiati nelle modifiche della Costituzione, non solo il malaugurato titolo V nel 2001, ma anche in altre occasioni.
Difendere la Costituzione
Il giudizio fondamentale deve essere che la Costituzione ha le caratteristiche che ha ricordato in questi giorni il Presidente Mattarella. La Costituzione è frutto di una temperie irripetibile (ricordando la 2° guerra mondiale) che ha portato alla sconfitta del nazifascismo e a delineare per il futuro un paese democratico, per la divisione dei poteri e il loro reciproco controllo e per la connotazione antifascista, con in più una visione della democrazia con una diffusa partecipazione e di libertà individuale e collettiva, di crescita sociale delle classi subalterne in nome di obiettivi di uguaglianza e di rimozione degli ostacoli esistenti.
Troppe volte anche per responsabilità di settori della sinistra cambiare la Costituzione è sembrata la via più breve per risolvere problemi politici, dimenticando che gli Usa hanno una Costituzione che vive da 2 secoli e mezzo e ha subito pochi emendamenti. La nostra che è certamente una delle migliori del mondo, non ha bisogno del bricolage a cui qualcuno pensa e tanto meno di un capovolgimento dei principi fondamentali.
Semmai bisogna ammettere che il vero e irrisolto problema è attuarla, per questo va difesa.
Occorre cambiare l’ottica, non è la Costituzione che ha problemi, semmai è la politica che è asfittica e soggetta a tentazioni semplificatorie, di mantenimento del potere occupato grazie ad errori politici madornali delle attuali opposizioni.
La svolta indispensabile è tornare alla fonte, all’attuazione e alla difesa della Costituzione. Ricordiamoci sempre la semplice chiarezza con cui l’articolo 1 afferma che L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, che la sovranità appartiene al popolo che la esercita attraverso le modalità definite dalle leggi, e che l’articolo 3 afferma che la Repubblica è impegnata rimuovere le disuguaglianze.
La terza repubblica targata Meloni
Quando Giorgia Meloni afferma che la proposta transiterebbe l’Italia verso una terza repubblica apre problemi enormi.
Anzitutto la Repubblica parlamentare attuale, disegnata dai costituenti nel 1948, è chiara e riconoscibile, mentre cosa sia la terza repubblica della Meloni nessuno lo sa. Si intuisce che è un succedaneo del presidenzialismo, senza neppure identificare i contrappesi istituzionali che un presidenzialismo comporterebbe. Ad esempio che l’elezione diretta del Presidente non può essere condizionata e legata a quella del parlamento.
La divisione dei poteri è un pilastro della democrazia. Il parlamento decide attraverso le leggi e controlla il governo, il governo deve avere la fiducia del parlamento e ad esso risponde. Purtroppo da anni è prevalso l’andazzo dei voti di fiducia, di un uso alluvionale dei decreti legge, creando subalternità del parlamento al governo.
Per non parlare delle garanzie previste in Costituzione del quorum per eleggere il Presidente della Repubblica che diventerebbe di fatto un appannaggio della maggioranza visto che la proposta del governo parla apertamente di legge maggioritaria collegata al Presidente del Consiglio eletto direttamente.
Anche sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio occorre un’operazione di ridefinizione delle posizioni da parte delle opposizioni. Non ci sono ragioni per assecondare la personalizzazione. Comuni e Regioni non sono esempi positivi, si sono create enormi concentrazioni di potere in poche persone e la sostanziale inutilità dei consigli la cui vita dipende da quella di Sindaci e Presidenti.
Ci vorrebbe il coraggio di ripensare a questa esperienza nei Comuni e nelle Regioni, certamente questo metodo non va esteso al parlamento e al governo, altrimenti si creerebbe un’accentramento di potere in una sola persona, il Governo ne sarebbe lo staff, il parlamento ne diventerebbe subalterno e il Presidente della Repubblica drasticamente ridotto nei suoi poteri ma dipendente dal Presidente del Consiglio e futuro appannaggio della maggioranza.
Questa proposta è inaccettabile ma se vogliamo condurre un contrasto efficace dobbiamo rimuovere gli ostacoli rappresentati da posizioni precedenti e togliere dalle mani del Governo la possibilità di continuare a dire: ma voi avevate detto, rivolto a questo e a quello. Abbiamo già avuto una prova generale nell’iniziativa alla Camera e abbiamo capito che se vogliamo condurre una battaglia vittoriosa fermando il tentativo della destra di mandare in soffitta la Costituzione del 1948 occorre affermare con chiarezza che questo tentativo di stravolgere il nostro impianto costituzionale va respinto e combattuto fino in fondo.
E’ decisivo comprendere che stiamo correndo il pericolo di finire non tanto in una democrazia illiberale, che è una contraddizione in termini, ma in una Capocrazia e questo obbliga a rivedere precedenti comportamenti. Ciascuno può giudicarli come vuole ma è certo che oggi la Costituzione va attuata e difesa non stravolta per andare in un altrove che interessa solo quanti desiderano essere legittimati in modo diverso da quanto previsto dalla Costituzione democratica ed antifascista del 1948.