Il risultato delle elezioni comunali è stato sfavorevole alla destra e favorevole al Pd, riferimento di una coalizione a geometria variabile, e ha registrato il disastro del Movimento 5 Stelle. La battuta d’arresto per la destra è evidente. I tentativi di Salvini di millantare scenari favorevoli, subito dopo il voto, sono durati ben poco. Giustificazioni senza fondamento. In sé il risultato ha segnato certamente una boccata di ossigeno per le forze che contrastano, non sempre con piena consapevolezza, la destra.
Tuttavia è indispensabile guardare oltre il risultato immediato che potrebbe trarre in inganno.
La sconfitta della destra, come risulta evidente dai ballottaggi, è il risultato di una maggiore perdita di voti rispetto al Pd e ai suoi alleati. Se immaginiamo due ascensori, uno è precipitato, l’altro è sceso di meno, ma è comunque sceso. Rutelli infatti ha rivendicato che prese, un’epoca fa, più voti di tutti i votanti attuali. L’astensione, la disaffezione al voto, è la vera protagonista delle elezioni amministrative che segnalano il crollo del ruolo del Movimento 5 Stelle che sembrava essere il possibile interprete di una critica di fondo ai partiti storici. Infatti l’affermazione elettorale del M5Stelle si è manifestata prima con l’exploit del 2013, poi nel 2018 quando ben un terzo degli elettori ha consegnato la sua rappresentanza critica ma attiva al M5Stelle. Ora non è più così, una parte rilevante degli elettori – più di destra che di sinistra – non ha più trovato un soggetto politico in grado di rappresentarli e hanno scelto il non voto. In particolare questo è avvenuto nelle periferie, nelle zone popolari dove l’astensione dal voto ha raggiunto percentuali mai viste, anche il 70, 80 per cento. Per fortuna non dappertutto ma i picchi sono questi.
Alcuni anni fa, nel novembre del 2014, è stato rapidamente archiviato un episodio politico rilevante, antesignano di quanto è avvenuto adesso nelle elezioni amministrative, e cioè la prima elezione di Bonaccini a presidente della Regione Emilia Romagna, quando vinse ma con una partecipazione al voto del 37%. Questo in una regione come l’Emilia Romagna che ha una tradizione politica di partecipazione al voto altissima. Non era un semplice episodio ma il segnale preoccupante che elettrici ed elettori non rispondono più ad appartenenze, ma si muovono con grande scioltezza e se non sono convinti non votano. La riflessione nel Pd su questo avvenimento, di prima grandezza, come su altri altrettanto importanti come la fase infausta di Renzi segretario del Pd, non c’è mai stata e ora si rischia la replica, come dimostra qualche entusiasmo di troppo. Eppure in quel momento in Emilia Romagna è venuto un segnale forte del distacco tra rappresentanze politiche ed elettrici ed elettori. Questo voto amministrativo segnala che la destra sta peggio, ma le sinistre non debbono inorgoglirsi perché la disaffezione le colpisce, meno ma le colpisce.
Quando si manifesta un distacco politico di questa ampiezza e profondità la democrazia non è in buona salute.
Una democrazia come quella italiana, con un elettorato estremamente mobile o che decide di rimanere a casa, è un problema. È un orientamento mutevole, influenzabile dai media, una vera incognita. Mentre non ci sono più partiti o sedi politiche in grado di costruire partecipazione, cultura politica, ispirare fiducia, promuovere la partecipazione attiva delle persone. La crisi dei partiti, sempre più autoreferenziali, lontani dai problemi delle persone, permane, non trova soluzione. In altri paesi non è così, ad esempio in Germania i partiti continuano ad essere contenitori importanti di partecipazione. Del resto la Costituzione italiana prevede che i partiti svolgano un ruolo importante nella vita democratica, organizzando partecipazione e battaglia politica su proposte, su alternative. Questa possibilità si è inaridita, lasciando spazio a partiti personali, non solo a destra, a gruppi dirigenti autoreferenziali, distaccati, attenti agli umori ma incapaci di avanzare piattaforme e di organizzare il raggiungimento degli obiettivi. L’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione potrebbe aiutare a rilanciare la vita democratica interna, a stabilire regole precise di funzionamento per arrivare a decisioni, candidature comprese, al rispetto delle minoranze e delle regole nella selezione interna. Questa è la legislatura in cui Renzi ha deciso di fatto buona parte delle candidature del Pd, al punto che quando ha lasciato il partito si è portato dietro un notevole gruppo di parlamentari, indebolendo fortemente quelli del Pd. La decisione su chi eleggere ha creato un rapporto di fedeltà con chi ne aveva deciso l’elezione in parlamento.
In questa fase il punto di fondo è la legge elettorale.
Quella in vigore è il pessimo rosatellum, peggiorato dalla legge voluta dalla Lega ai tempi del Conte 1 per coordinarlo con il taglio del parlamento. La Lega nell’accettare il patto con il Movimento 5 Stelle di tagliare i parlamentari dalla legislatura che verrà ha ottenuto di decidere contestualmente la legge elettorale e in particolare di confermare il rosatellum con qualche peggioramento in senso maggioritario, maggio 2019. Questo pasticcio ha trovato attuazione con il governo Conte 2 nel gennaio 2021, dopo il referendum del settembre 2020 che ha confermato il taglio. È vero che il governo deve attuare la legge in vigore, ma proprio per questo avrebbe dovuto tentare di cambiare la legge elettorale anziché limitarsi a darle attuazione. Difficile dire se la ormai prossima elezione del nuovo Presidente della Repubblica possa originare soluzioni che porteranno al voto anticipato. Potrebbe accadere. In ogni caso questa è la fase in cui il parlamento dovrebbe tentare di arrivare ad approvare una nuova legge elettorale, che potrebbe valere in caso di elezioni anticipate o alla scadenza ordinaria nel 2023.
Approvare una nuova legge elettorale è indispensabile.
Quella in vigore ha già dimostrato di essere una legge sbagliata, incapace di rilanciare il rapporto tra partiti ed elettori. Anzi affida il potere ai vertici dei partiti di mettere i candidati al posto giusto in lista per risultare. I vertici non vogliono rinunciare a questo potere, ma è indispensabile farlo se si vuole ristabilire un rapporto di fiducia tra elettori ed eletti. Il parlamento è ai livelli storici più bassi in termini di credibilità. Quando ha votato il taglio dei suoi componenti ha compiuto una sorta di suicidio politico, perché non ha trovato la forza di reagire. Da tempo i governi hanno usato ed abusato dei loro poteri, imponendo le loro scelte al parlamento, con voti di fiducia, uso sempre più frequente dei decreti legge, maxiemendamenti. Ci sono stati impegni a cambiare atteggiamento, ma sono stati disattesi e questo andazzo è proseguito governo dopo governo. L’unica legge di iniziativa parlamentare approvata di qualche peso in questa legislatura è quella sulla parità retributiva tra donne e uomini, per il resto il parlamento ratifica quello che il governo decide. Con il governo Draghi questo meccanismo di rovesciamento dei ruoli previsti dalla nostra Costituzione (il parlamento decide le scelte e il governo si muove nel loro ambito) è diventato permanente. È il governo il punto di decisione e di eventuale mediazione, il parlamento è inondato di decreti di attuazione delle cosiddette riforme. Si tratta di un numero consistente di provvedimenti che prevedono deleghe al governo a decidere. Questa modalità tende così a diventare permanente, perde il carattere di fase contingente per diventare sistema e finisce con il mutare il ruolo del parlamento che non rivendica il proprio ruolo di rappresentanza.
Questa è l’affermazione di una Costituzione materiale diversa da quella scritta e di questo passo prima o poi qualcuno porrà il problema di riscriverla.
Per questo la legge elettorale è un passaggio cruciale. Se il parlamento è al punto più basso di credibilità lo si deve anche alla modalità della sua composizione che sfugge al controllo degli elettori ed è appannaggio dei vertici dei partiti che decidono gli eletti. Ridare ai parlamentari il ruolo di rappresentanti dei cittadini vuol dire avere una rappresentanza proporzionale alle liste, senza meccanismi ulteriori di accentramento visto che la soglia del 3% per eleggere è già aumentata di fatto di un terzo dalla diminuzione del numero degli eletti, prevedendo recuperi in modo da garantire il più possibile la rappresentanza culturale, politica, sociale, territoriale, altrimenti ci sarebbero esclusioni radicali. Inoltre occorre che i cittadini possano scegliere la persona in cui ripongono fiducia. Se la composizione avvenisse in futuro su queste basi avremmo fatto un passo avanti contro l’astensionismo, l’allontanamento dalla partecipazione politica. Infine, la Germania sta dimostrando che le coalizioni di governo si possono formare dopo il voto sulla base del consenso ottenuto, anziché insistere su coalizioni preventive incentivate dal maggioritario che hanno fallito sia a destra che a sinistra. Sono molto più solidi patti di coalizione conquistati faticosamente con confronto e mediazioni, dopo che ciascun partito si è presentato agli elettori e sa su quale consenso può contare.
Quindi una legge elettorale proporzionale, con eletti scelti direttamente dagli elettori, è un primo recupero di credibilità del ruolo del parlamento e dei parlamentari e probabilmente anche la sua composizione ne trarrebbe un beneficio di qualità importante. Non basta la legge elettorale, ma certo una cattiva, come quella in vigore, impedirebbe un rilancio del ruolo del parlamento favorendo una modifica di fatto della Costituzione.
Un confronto politico forte, tra piattaforme potrebbe sciogliere nodi nella formazione delle coalizioni che stanno ormai raggiungendo punti preoccupanti. Forse a destra si liberebbero energie per costruire una posizione di destra costituzionale, ben diversa dalla subalternità attuale a sovranismi ed estremismi. Anche a sinistra questo porterebbe al chiarimento dei ruoli e ciascuno dovrebbe conquistare i propri consensi nel vivo della battaglia politica.