(articolo di Alfiero Grandi su www.jobsnews.it del 26/07/21)
Siamo alle soglie del semestre “bianco” durante il quale il Presidente della Repubblica non può sciogliere in anticipo le Camere. Le elezioni anticipate sono un deterrente nelle mani del Presidente della Repubblica per ricondurre a ragionevolezza i partiti riottosi e far prevalere il senso di responsabilità. Forse per questo il Presidente Mattarella ha chiarito che comunque può esercitare altri poteri come rinviare alle Camere decreti legge che durante la conversione hanno subito rigonfiamenti esagerati, fino a raddoppiare il numero degli articoli e aumentare a dismisura le materie in essi contenute. Tuttavia il Presidente ha inevitabilmente aperto una riflessione ben più consistente.
Anzitutto sul rapporto tra governo e parlamento. È un fatto che i decreti legge sono raddoppiati dal febbraio 2020 se confrontati con il periodo precedente e che i voti di fiducia sono la normale modalità con cui arrivano all’approvazione in parlamento, inoltre il voto di fiducia porta con sé i maxiemendamenti. Questo significa che il rapporto tra governo e parlamento è rovesciato. Il parlamento è chiamato ad approvare gli atti del governo che di fatto ne dettano l’agenda e i tempi, mentre non ha di fatto lo spazio (purtroppo spesso neppure le condizioni politiche) per esaminare ed approvare proposte di legge essenzialmente parlamentari. Emblematicamente questa è la situazione in cui si è trovato il ddl Zan che è stato rinviato con la motivazione che c’erano decreti da approvare con urgenza entro i termini, altrimenti sarebbero decaduti. Probabilmente questa motivazione è stata utile ad alcune posizioni politiche che non volevano votare prima della pausa di agosto, ma resta il fatto che è stata spiegata con l’urgenza di altri provvedimenti, guarda caso del governo, confermando così che il parlamento sempre più è chiamato ad un ruolo di ratifica delle decisioni e delle mediazioni trovate a livello di governo. Mentre il parlamento è l’asse del nostro sistema costituzionale.
Altro episodio illuminante è l’approvazione del decreto governance/semplificazioni alla Camera. Ora il decreto passa al Senato dove verrà approvato in velocità senza alcuna reale possibilità di modifica perché la Camera ha usato il tempo disponibile e ora la decadenza incombe. Di fatto i decreti vengono discussi nel primo ramo del parlamento, l’altro si limita ad approvare quanto arriva già confezionato dall’altra Camera. Quindi è di fatto rovesciato il rapporto tra governo e parlamento ma anche il rapporto tra le due camere si sta avvicinando al monocameralismo di fatto. Del resto la sovrapposizione del corpo elettorale fa venire meno una ragione non banale del bicameralismo visto che da qualche settimana potranno votare per il Senato anche i maggiori di 18 anni. Il parlamento poi non riesce ad intervenire con autorevolezza sui provvedimenti. Riprendo l’esempio del decreto governance/semplificazioni. Il PNRR è un documento non soddisfacente, non traspare il coraggio di una scelta radicale sulla svolta ambientalista. Del resto il governo Draghi è apparso frenare anche sui provvedimenti Fit for 55 della Commissione europea che hanno cercato di indicare ulteriori sponde per spingere l’Europa a procedere verso la riduzione del 55% di CO2 al 2030. Era scontata la resistenza dei paesi di Visegrad, ma se la resistenza viene da paesi come Francia, Italia, Spagna che dovrebbero essere trainanti il problema si fa molto serio. Il decreto governance/semplificazioni in sostanza definisce le modalità con cui si deciderà e il parlamento non è riuscito a introdurre modifiche nei percorsi individuati tali da consentire un controllo adeguato dell’applicazione dei bandi.
Il presidente del Consiglio è il vero pivot, con il corredo dei ministri da lui scelti (economia, ambiente, mobilità, innovazione digitale) che di fatto saranno insieme il nucleo politico decisionale. Gli altri aspetti su cui pure si è molto discusso: mezzogiorno, lavoro, giovani e donne restano obiettivi sulla carta ma i ministri che dovrebbero garantire i risultati non saranno presenti in modo permanente, una sottovalutazione non da poco. Non è nemmeno chiarito come e se verranno informati dei provvedimenti. Eppure è chiaro che un Sì al PNRR non è automaticamente un consenso ai singoli provvedimenti, che ovviamente possono essere discussi. Anzi il singolo provvedimento, di conseguenza il singolo bando, rischia di essere deciso contro la volontà di tanti. Il governo così pensa di avere ragione non solo dei tempi lunghi ma anche del consenso ai singoli provvedimenti, imponendo di fatto la decisione. In tanti casi potrebbe essere condivisibile, ma in altri no. Il parlamento doveva individuare un percorso in cui esprimere un consenso o un dissenso prima della decisione del Consiglio dei Ministri. Un metodo che taglia con la spada i nodi gordiani rischia di creare come unica alternativa ribellioni tipo Val Susa. Imporre ha delle conseguenze, comporta delle reazioni.
I partiti hanno valutato adeguatamente questi aspetti? Non sembra. Nel decreto governance/semplificazioni ci sono molti aspetti che sono stati approvati senza una adeguata riflessione, eppure cambiano in modo sostanziale il funzionamento concreto della democrazia del nostro paese. Del resto se qualcuno non avesse chiara la situazione basta che rifletta sugli emendamenti che la ministra Cartabia ha portato in Consiglio dei Ministri sulla prescrizione e sul parlamento chiamato a decidere annualmente linee guida sul lavoro della magistratura, a detta di molti incostituzionale. Eppure il governo ha deciso di dare mandato alla Ministra di chiedere il voto di fiducia su questi testi. Salvo modifiche dei prossimi giorni, potremmo trovarci nella curiosa situazione che l’ex presidente della Corte costituzionale diventata ministra fa approvare un provvedimento con molte probabilità incostituzionale, che inevitabilmente i magistrati prima o poi porteranno al giudizio della Corte attuale.
Forse è giunto il momento di fermarsi e di riflettere.
In particolare la riflessione deve riprendere dalla Costituzione, dai suoi valori, dai suoi presupposti democratici, dalla sua natura antifascista, dalla sua attuazione. Nei fatti aspetti importanti vengono cambiati ma non sono coerenti con il dettato costituzionale, ad esempio con la netta definizione di autonomia della magistratura dal potere politico ed esecutivo e questo è importante per chiunque governi, oggi una parte, domani l’altra. Dalla crisi delle coalizioni prima di centro sinistra (2008) e dopo di centro destra (2011) l’Italia non ha ancora trovato una chiara definizione del terreno che unisce e di ciò che invece – nell’ambito di regole condivise – è materia propria di alternative politiche. A costo di andare contro corrente, non sembra che il governo Draghi sia in grado di dare garanzie sul futuro perché il problema è di fondo, riguarda contenuti essenziali. Le difficoltà italiane non sono tanto nella difficoltà a fare quanto in un chiaro confronto sulle prospettive e su un mandato elettorale che indichi con chiarezza la direzione di marcia e questo lo può fare solo un appuntamento elettorale come le prossime elezioni, nel quale realizzare le condizioni essenziali di rappresentanza politica e il rinvio continuo della nuova legge elettorale non è di buon auspicio.
Prendere tempo non serve, la legge elettorale deve approvarla questo parlamento e un battaglia esplicita per il proporzionale è necessaria insieme alla possibilità di scegliere direttamente i propri rappresentanti da parte dei cittadini resta la condizione di base per rilanciare in questa fase la democrazia italiana, altrimenti l’impoverimento politico continuerà e la società italiana sarà sempre più spaccata tra chi ha il potere di decidere e chi ha come ruolo solo quello di prendere atto o di ribellarsi. Esattamente il contrario di una società inclusiva e partecipata. Cerchiamo di non rimpiangere l’impianto costituzionale quando sarà troppo tardi.
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