La Commissione europea ha inviato all’Italia una richiesta che ripercorre fin troppo l’esperienza (infausta) della Grecia. Il fantasma della Grecia torna come in una tragedia shakespeariana, ricordando all’Italia di averla lasciata sola di fronte all’austerità europea. Le dichiarazioni del vicepresidente Dombrovsky portano a soluzioni che, se attuate, peggiorerebbero lo stato di salute dell’economia italiana in quanto prefigurano una cura prociclica ad un’economia già in notevoli difficoltà, cioè nuovi tagli. È una ricetta sbagliata, come in passato. Questo non vuol dire che siano valide le soluzioni fin qui adottate dal governo gialloverde, al contrario, malgrado un aumento del deficit pubblico rispetto alle previsioni e agli impegni presi in precedenza, non si vedono segni di miglioramento dell’economia e quelli sull’occupazione sono fragili, in larga misura posticci, e non cambiano la sostanza della situazione.
Preoccupa che gli investimenti pubblici e privati siano sostanzialmente fermi e senza segnali forti, anzitutto politici, difficilmente riprenderanno. Esponenti leghisti che parlano con faciloneria di sbloccare gli investimenti, cogliendo in realtà l’occasione per manomettere le regole negli appalti, chiedano lezioni private a Tremonti sul rapporto tra spese per competenza e per cassa, così eviteranno delusioni. Non è un caso che i soldi non escono, non vengono investiti, anche se quelli teoricamente disponibili sono cifre notevoli. La sostanza è che manca circa un milione di posti di lavoro equivalenti, perché purtroppo una parte importante degli occupati calcolati per raggiungere i numeri attuali di cui parla l’Istat sono lavori di breve durata, parziali, spesso di poche ore che non permettono di garantire la vita delle persone. Un belletto che non nasconde l’amara verità e che per di più si aggiunge ad una diminuzione dei salari reali per tanta parte dei lavoratori per varie ragioni: disoccupazione, Cig, alternative di lavoro meno remunerative, quando ci sono. In sostanza 10 occupati a orario normale non sono come 10 occupati che lavorano un giorno la settimana e in certi casi nemmeno intero.
La vera questione non è tanto il rientro nei parametri ricordati dalla UE, anche se un quadro credibile dei conti è necessario, ma gli obiettivi della spesa pubblica e il rapporto tra azione del governo e parti sociali. In altre parole il problema è politico. Se continua il terremoto di Salvini sui conti pubblici senza costrutto, solo per mantenere alte le bandiere leghiste come la Flat tax, e se per di più il M5Stelle continua a subire terrorizzato da possibili elezioni anticipate, ci troveremo presto tra due fuochi: l’austerità ad ogni costo, più o meno di tipo greco, proposto dalla UE, oppure la spesa facile, demagogica, che punta a creare nuove clientele sociali attraverso un fisco ritagliato sugli amici o sulle categorie che si vogliono fidelizzare. Come è accaduto con la legge di bilancio in vigore con le partite Iva, buttando al vento alcuni miliardi di cui non si parla abbastanza. Se questo percorso di corporativizzazione e segmentazione della società continuerà arriveranno al pettine nodi difficili con conseguenze inevitabili di tagli allo stato sociale. Stato sociale che già ha subito fin troppi tagli, in particolare nella sanità e nel sistema previdenziale e che ulteriormente indebolito potrebbe comportare un pericoloso indebolimento della coesione sociale, lasciano campo libero alla privatizzazione anche nei settori sociali. Ovviamente tutto questo nel presupposto che lavoratori e pensionati continuino a pagare almeno l’80% del fisco senza ribellarsi.
Occorre diminuire le tasse? Certo, ma per farlo occorre prendere le risorse dove sono, cioè da grandi patrimoni, alti redditi e da evasione ed elusione, finora molte chiacchiere ma fatti zero, anzi la grandinata di condoni targati gialloverde ha quasi bloccato l’operatività degli uffici di controllo. Senza dimenticare che la suddivisione corporativa che promette la diminuzione di tasse a singole categorie o interventi finanziari a settori definiti della società contribuiscono alla disintegrazione del tessuto e della coesione sociali. È giunto il momento di proporre in termini nuovi sia un rapporto tra governo e parti sociali, sia l’adozione di una legislazione che consenta di esigere gli accordi contrattuali che si fanno. Questo riguarda i contratti ma paradossalmente anche il governo che spesso si trova con accordi stracciati da imprese, spesso multinazionali, e con quattrini pubblici buttati al vento perché gli accordi che sottoscrive non vengono rispettati. Il tutto con la consapevolezza che comportamenti eticamente inattaccabili e una lotta senza quartiere alla corruzione, agli accordi innaturali, alle commistioni sono ormai un pilastro della possibilità di riprendere il cammino di una ripresa ambientalmente orientata per il nostro paese, oggi fiaccato da una crisi senza fine, da un incattivimento sociale preoccupante, da un corporativismo spesso ispirato dall’alto.
Questo governo non può farcela. Troppo forte è l’influenza della Lega che ormai rappresenta il riferimento delle politiche sbagliate e irresponsabili, mentre il M5Stelle sembra purtroppo paralizzato, terrorizzato da una possibile crisi come accadeva con la palude democristiana sempre disponibile ad evitare voti anticipati. Un cambio politico potrebbe aiutare a ricostruire un rapporto credibile anche con la futura commissione europea.
Le sinistre che dovrebbero prendere in mano la bandiera del rinnovamento non godono di buona salute, è ovvio, ma non recupereranno un ruolo alternativo facendo melina, con il prevalere di preoccupazioni e tattiche di corto respiro, dovranno inevitabilmente sforzarsi di avanzare proposte e di ingaggiare battaglie coraggiose di cambiamento. Portare il mondo del lavoro a partecipare ad un impegno comune dei soggetti sociali fondamentali oggi non sarà cosa facile, dopo tante delusioni. Per questo occorre un segnale forte, un biglietto da visita che faccia capire che si vuole veramente cambiare e ad esempio rimettere i diritti che erano nell’articolo 18. Meglio ancora sarebbe approvare uno statuto dei diritti di tutti i lavori (sul tipo di quello proposto dalla Cgil con legge di iniziativa popolare) insieme ad altre misure sul lavoro: dalla tutela della salute, ad una politica per l’occupazione, fino alla valorizzazione dell’apporto dei lavoratori nelle imprese.
Fca/Renault è una storia istruttiva, abbiamo capito tutti le condizioni che poneva il governo francese per l’accordo, fino a farlo saltare, anche se forse ha rappresentato posizioni di altri, quello che nessuno ha capito è la posizione del governo italiano, che non è pervenuta. Tra interventismo statale ed agnosticismo c’è lo spazio per una politica industriale degna di questo nome. Del resto sembra di capire che Fca stessa non si sia posta il problema di assicurarsi un sostegno del governo italiano.
La lite tra Dombrovsky (o chi verrà dopo di lui) e Salvini non può e non deve essere l’assillo dell’Italia. Tanto più che per ora Salvini in Europa ha perso possibili alleati per strada, e quindi peserà ancora meno. Meglio cambiare pagina prima possibile, prima che sia tardi.
Il nostro paese può ancora salvarsi, ma ha bisogno di coraggio e lungimiranza.
Alfiero Grandi
(su www.jobsnews.it)
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