Tremonti lo specialista della doppia verità
- Pubblicato su dal quotidiano Liberazione il 06/01/2009Tremonti ha scritto un libro per dimostrare che la finanza internazionale è la peste del XXI° secolo e non perde occasione per ribadire che è necessario mettere sotto controllo gli strumenti finanziari, in particolare quelli internazionali che muovono quantità incredibili di denaro . Qualche volta, a parole, si spinge fino ad ipotizzare veri e propri divieti per determinati strumenti finanziari. Ad esempio per quanto riguarda i cosiddetti fondi spazzatura, su cui ho letto dichiarazioni più che condivisibili del Ministro.
Fin qui si può ritenere che Tremonti contribuisce alla denuncia della gravità della situazione che ha portato alla crisi finanziaria mondiale che è all’origine dell’attuale recessione economica. Del resto anche in un periodo molto lontano la critica al capitalismo veniva non solo da sinistra, dal movimento operaio, ma anche dal versante di chi difendeva l’economia agricola preesistente.Questo senza nulla togliere alla validità degli argomenti.
Tuttavia Tremonti è una sorta di Giano bifronte perché contemporaneamente a questa dura denuncia a parole, nei fatti come Ministro dell’Economia non ha trovato di meglio che abbattere alcuni dei baluardi costruiti dopo la crisi del 1929. Infatti uno dei presupposti usciti dalla crisi del 1929, per evitare di ricadere nella crisi, era quello di distinguere il destino delle imprese da quello del settore finanziario. Infatti tra le regole auree del dopo crisi del 1929 c’era la netta distinzione dei compiti tra settore finanziario e settore produttivo. Una norma di garanzia contro la commistione di interessi. Già la scelta di costruire un sistema bancario universale attraverso la soppressione in Italia nel 1992 della distinzione tra banche commerciali e attività finanziarie è stata discutibile e alla luce della crisi che è appena scoppiata non sembra essere stata una buona idea. Semmai dovrebbero essere portati dei correttivi, forse occorrerebbe tornare alla situazione quo ante.
In questi giorni invece, mentre venivano alzati alti lamenti sulla crisi finanziaria, sui suoi devastanti effetti, e venivano presi solenni impegni per evitare che si riproponessero le stesse condizioni che hanno portato alla crisi attuale, il Governo e (purtroppo anche) la Banca d’Italia hanno deciso di consentire alle banche di aumentare la loro partecipazione al capitale delle imprese e, nella direzione contraria, di consentire alle imprese di aumentare la loro partecipazione nel capitale delle banche. Esattamente quello che dopo il 1929 si era cercato di evitare nella fondata convinzione che la commistione di interressi tra banche e imprese industriali, commerciali, ecc. può portare solo guai. Del resto dopo la crisi Parmalat si era detto solennemente di volere addirittura garantire che l’attività bancaria avesse al suo interno una netta distinzione tra l’attività volta a costruire i prodotti finanziari da vendere e chi distribuisce gli stessi prodotti ai cittadini, in modo da evitare il conflitto di interessi che è venuto a galla dopo le indagini della magistratura sulle crisi Cirio, Parmalat, ecc..
Quindi da un lato il Governo fa roboanti dichiarazioni sull’esigenza di mettere sotto controllo il mercato finanziario e dall’altro sta consentendo una pratica “incestuosa” tra banche e imprese e per di più lo fa, per quanto lo riguarda, per decreto legge e imponendone l’approvazione. Cosa c’entra la crisi economica con questo provvedimento non si comprende, se non come un provvedimento che semmai potrebbe aggravarla, togliendo una garanzia contro il ripetersi di condizioni pericolose. E’ certo un provvedimento che c’entra con la crisi finanziaria e il Governo, per decreto, ha deciso di procedere esattamente al contrario di quello che ha dichiarato ai quattro venti.
Dispiace che la Banca d’Italia sia partecipe di questo disegno. E’ pur vero che in passato il Governatore ha sostenuto che più che le restrizioni può il controllo dell’opinione pubblica. Peccato che i fatti si siano incaricati di smentire questa posizione.
La questione della distinzione dei ruoli tra banca e impresa non è cosa di poco conto perché in una fase di crisi finanziaria ottenere credito non è per tutti allo stesso modo ed è chiaro che se qualche imprenditore si troverà nella più favorevole posizione di essere un importante azionista di una banca ha ragionevoli possibilità di partire da una posizione di vantaggio nell’ottenere credito, visto che il futuro degli amministratori della banca dipenderà anche dalla valutazione dell’azionista imprenditore.
Colpisce che il Ministro dell’Economia che pure ha scritto parole di fuoco contro la peste del XXI° secolo non avverta che la sua azione pratica va esattamente nella direzione contraria a quella dichiarata. Certo, alcuni statuti bancari prevedono che gli amministratori interessati ad una delibera si astengano dal voto, ma è situazione già nota anche sul piano politico. Infatti non abbiamo dimenticato quando nel consiglio dei Ministri venivano prese decisioni in assenza di qualcuno direttamente interessato al provvedimento che ci teneva a sottolineare come non fosse presente alla decisione, salvo essere assolutamente tranquillo sui risultati finali. La decisione infatti è sempre stata conforme agli interessi dell’assente. Nelle banche accadrà la stessa cosa. L’assente non avrà motivo di preoccuparsi, i suoi amici provvederanno a garantirlo adeguatamente. Domanda, come mai tanta disattenzione su un punto di questa portata e per di più tuttaltro che tecnico in quanto riguarda la distinzione dei ruoli nel sistema economico e i poteri che in esso vengono esercitati e il ruolo di regolazione della legislazione?
Alfiero Grandi
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