Al Presidente della Repubblica Italiana
On. Giorgio Napolitano
Ai Senatori a vita:
Sen. Francesco Cossiga
Sen. Oscar Luigi Scalfaro
Sen. Carlo Azeglio Ciampi
Al Presidente del Senato
Sen. Renato Schifani
Al Presidente della Camera dei Deputati
On. Gianfranco Fini
Al Presidente del Consiglio dei Ministri
On. Silvio Berlusconi
All'On. Valter Veltroni
All'On. Antonio Di Pietro
Al Ministro della Difesa
On. Ignazio La Russa
Al Sen. Eugenio Scalfari
Sig. Presidente,
ho letto con sgomento, le incredibili dichiarazioni che il Ministro della Repubblica La Russa pare abbia pronunciato nel corso della cerimonia di commemorazione del 65° anniversario della Difesa di Roma e dell'Armistizio di Cassibile:
"Farei un torto alla mia coscienza - ha obiettato La Russa, nel corso del suo intervento, di seguito a quello del presidente della Repubblica - se non ricordassi che altri militari in divisa, come quelli della Nembo dell'esercito della Rsi, soggettivamente, dal loro punto di vista, combatterono credendo nella difesa della patria, opponendosi nei mesi successivi allo sbarco degli anglo-americani e meritando quindi il rispetto, pur nella differenza di posizioni, di tutti coloro che guardano con obiettività alla storia d'Italia". (Vedi La Repubblica del 8 settembre 08)
Sig. Presidente,
cerco di guardare con molta obiettività alla Storia d'Italia e Le segnalo la tremenda e vergognosa "Dichiarazione d'impegno" riportata in un articolo del mio Papà, che allego integralmente e che si può trovare riportata in altri testi, fra i quali Le segnalo "Il grande diario" di Giovannino Guareschi, ed. Rizzoli. Quelli che secondo La Russa dovrebbero essere guardati con rispetto furono coloro che appoggiarono militarmente la vergogna della "repubblica di Salò". Lei può trovare l'ennesima conferma nell'articolo del mio Papà, militare prigioniero nei Campi di concentramento tedeschi durante la seconda guerra mondiale, che Le allego, delle sofferenze che i Militari Prigionieri nei Campi tedeschi dovettero subire per difendere la loro dignità di Italiani, di Militari e di Uomini.
Può un ministro della Repubblica Italiana, che ha giurato fedeltà alla Costituzione, dimenticare che essa è fondata sui valori sacrosanti e sui sacrifici inenarrabili dell'Antifascismo e oltraggiare la memoria degli Eroi che diedero vita in Italia e nei Campi di concentramento alla Resistenza contro il nazifascismo e sfidare in modo così inaudito quella parte del Popolo italiano che non li ha dimenticati e resta fedele alla Costituzione della Repubblica Italiana?
Io Le chiedo Sig. Presidente e se ne valesse la pena vorrei chiedere al Ministro La Russa chi furono i Patrioti: coloro che resistettero (e molti morirono) nei Campi o i traditori (i repubblichini della repubblica di Salò) che cercarono di imporre scelte aberranti e che furono respinte con così gravi sacrifici?
E' un inaccettabile imbroglio cercare di mettere sullo stesso piano carnefici e Vittime, traditori ed Eroi.
La ringrazio per le sue affermazioni che cercano di ripristinare la Verità storica, ma ciò come Lei può ben capire non basta a me e credo a nessuno che si senta legato a quel Sacrificio e si sia imposto di rispettarlo a qualunque costo.
Le Istituzioni della nostra Repubblica non possono avere tentennamenti, incertezze o posizioni opportunistiche. Ciò che La Russa ha compiuto e un atto gravissimo e deve essere duramente sanzionato.
Il Patto democratico che lega la Repubblica ai cittadini deve essere reciprocamente rispettato: se la Repubblica lede quel patto esso è morto per tutti e la nostra convivenza civile cambia totalmente natura e ogni obbligo viene meno, viene meno per tutti.
Sig. Presidente,
mi auguro che siano intraprese ad ogni livello le iniziative necessarie perché la legalità repubblicana sia ripristinata.
Con rispetto
Dr. Roberto Taverna
"Dichiarazione d'impegno":
"Aderisco all'idea repubblicana dell'Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del duce, senza riserve, anche sotto il comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell'Italia repubblicana fascista del duce e del grande Reich germanico".
RESISTENZA DEGLI ITALIANI IN GERMANIA (1)
Nel marzo del 1944 dopo un penoso viaggio durato otto giorni, in vagoni piombati (come di consuetudine) provvisti di stufette ma non di combustibile, affollati bestialmente sì che non era possibile fare alcun movimento, con circa dieci centimetri di acqua ghiacciata sotto la schiena per tutta la durata del viaggio, mentre il "bugliolo" degli escrementi passava di mano in mano, con la legge che chi lo usava se lo teneva, la mia salma veniva scaricata alla stazioncina di Sandbostel - Soltau (Hannover) per essere avviata, a piedi, allo Stammlager XB distante una quindicina di chilometri.
Dopo sei mesi di Polonia (campo di Benjaminow - District Warschau denominato prima Stammlager 333, poi Offlag 73), pesavo circa 40 kg. Dal 3 settembre 1943 non avevo notizie dei miei fino al 15 febbraio 1944 quando su una cartolina di un altro internato vidi una riga di pugno di mia moglie. Noi potemmo scrivere una cartolina soltanto 1' 11 novembre 1943. Dicevo: "Sono prigioniero dei tedeschi..." La parola prigioniero fu cancellata dalla censura tedesca! Ci furono distribuiti moduli per scrivere in misura di due al mese e moduli per pacchi. Di una quarantina di pacchi speditimi dai miei famigliari, ne ho ricevuti sei, uno dei quali svuotato di ogni suo contenuto dalla sera alla mattina, penso ad opera degli ufficiali italiani addetti all' ufficio posta. I tedeschi non prendevano nulla dai nostri pacchi. Altri cinque mi furono consegnati tutti insieme il 5 aprile 1945: erano quasi completamente inservibili perché rimasti giacenti all' ufficio del campo, mentre io stavo tirando le cuoia e nessuno mi aveva cercato. Da questi particolari si può capire come funzionò il servizio pacchi. I moduli lettera erano di 24 righe e bisognava seguire rigorosamente le istruzioni e guardarsi da espressioni sospette: tuttavia queste frasi di mio padre in una lettera dell'11 dic. 1944 sfuggirono alla censura! "Noi stiamo bene; si vive un po' pericolosamente! ma affrontiamo serenamente il crudele destino che ci han preparato i nostri cari Signori direttori d'orchestra! di pifferi! Ammirando in te e compagni di sventura il carattere d'Italiano sano di mente e di cuore..." Quanto coraggio mi diedero queste parole di mio padre che aveva sopportato senza un lamento 30 mesi di trincea nella guerra 1915-18 dal Carso al Trentino al Piave e che ora - come seppi al mio ritorno - era dovuto fuggire alla macchia per evitare l' arresto da parte dei nazi-fascisti.
Quando arrivai a Sandbostel il mio abbigliamento era ancora quello della cattura, estivo e ridottissimo: ero senza scarpe e calzavo zoccoli di legno. A Benjaminow avevo trasformato i miei stivali in qualche chilo di patate per sostenermi in una dissenteria durata una quarantina di giorni. A questo proposito occorre dire che nei lager tedeschi quella che si definiva infermeria era soltanto una baracca che ospitava medici internati, dove però non c' era ombra di medicinali né di assistenza. Gli ammalati, anche gravissimi non ebbero mai un trattamento anche minimamente differenziato. I morti erano portati via nudi, su carri da letame.
I tedeschi ostentarono per noi ogni forma di inumano disprezzo: la loro espressione più gentile era "Traditori". La cosa ci lasciava indifferenti; sarebbe oltretutto stato sgradevole essere rispettati da un complesso così poco rispettabile. Individualmente qualcuno ebbe ammirazione per noi; ma lo diceva di nascosto per paura. Paura giustificata se si pensa che il Capitano Lohse, soprannominato "Armistizio" fu impiccato dai suoi soldati alla vigilia della nostra liberazione, solo perché nella zona erano arrivate le "SS". A Benjaminow il maresciallo addetto alla conta, dopo aver contato gli "aderenti", diceva: "E ora andiamo a contare gli Italiani". Non so nulla della sua fine.
Un trasferimento voleva dire disagi immensi e implicava la perdita di quei pochi stracci e strumenti di fortuna che il prigioniero, con ingegnosa pazienza e con molta parsimonia, riusciva a procurarsi. Le perquisizioni, particolarmente accanite, i bagni con disinfestazioni (docce che passavano di colpo dal gelido al bollente; camere-asciugatoio ad aria caldissima, poi fuori, nudi, sotto la neve, per qualche mezzora a cercare i nostri stracci) erano operazioni terribili. Se ne occupava la Gestapo.
I tedeschi cercarono fin dal primo giorno di farci aderire in ogni modo, con mille insidie psicologiche e torture fisiche e morali, a firmare dichiarazioni come la seguente:
"Dichiarazione d'impegno":
"Aderisco all'idea repubblicana dell' Italia repubblicana fascista e mi dichiaro volontariamente pronto a combattere con le armi nel costituendo nuovo esercito italiano del duce, senza riserve, anche sotto il comando supremo tedesco, contro il comune nemico dell' Italia repubblicana fascista del duce e del grande Reich germanico".
In cambio di ciò avremmo avuto il pane, le sigarette ed altro. Era un pane sporco; ma per Natale, traditi da una debolezza d' animo più che di corpo, molti ne mangiarono; e per tre mesi furono lasciati nel nostro campo a... farci invidia. Scoppiarono baruffe e gli "optanti" erano cacciati con male parole quando si presentavano alle nostre baracche. Molti di noi sdegnarono anche di posare gli occhi su quel foglio: e così, minuto per minuto, in quell' angoscia mortale, passarono sui nostri corpi cadaverici, sempre più secchi, sempre più gelidi, diciannove mesi di prigionia; cinquecentosettanta giorni di fame; mentre in tutti i campi una buca delle lettere era pronta ad accogliere domande furtive di "optare" o per l' esercito o per il lavoro. Ogni tanto arrivavano dei messi della repubblica sociale ad insultare la nostra miseria; oppure commissioni sedicenti di assistenza che finivano sempre con il ritornello del lavoro. Devo dire, ad onor del vero, che dalla repubblica sociale arrivò anche, nel gennaio 1945, un carico di gallette e latte condensato: ne toccò a ciascuno in ragione di un Kg. e mezzo di galletta e una scatoletta e mezza di latte. Fummo incerti se rifiutare quel soccorso, ma non ci parve di averne il diritto.
Al campo XB (Sandbostel) la persecuzione delle adesioni si interruppe, per quaranta giorni, con 1' epidemia di tifo petecchiale: il campo fu sprangato, sigillato e i tedeschi non si fecero più vedere. Ed era stravedere, in quella terribile minaccia, una certa macabra allegria dipinta su gli occhi di tutti, per 1' assenza dei nostri aguzzini. Dalle torrette però le sentinelle vigilavano ed erano pronte a sparare.
Ai primi di novembre 1944 fui trasferito, come "indesiderabile" al campo Offlag 83 di Wietzendorf. Questo trasferimento poteva costarmi la vita: non ricevetti più posta né pacchi. Avevo, parlando con un amico, pronunciato espressioni poco benevole per la monarchia: un capitano dei carabinieri mi aveva sentito e mi denunciò al comando (cosiddetto) italiano del campo, tenuto da un certo colonnello Angiolini, proveniente da Rodi. Fui processato e mi dovetti difendere; e poiché il comando italiano fu incaricato di compilare gli elenchi dei trasferendi, il mio nome fu tra i primi. Wietzendorf, si vociferava, era un campo di smistamento al lavoro forzato, previa trasformazione degli internati militari in "civili". Era un campo dichiarato inabitabile da una commissione di tedeschi, ed era servito per lo smistamento degli italiani dopo la cattura. Là ero arrivato ai primi di ottobre del '43 per ripartirne poi alla volta della Polonia. Il campo di Wietzendorf constava di 16 blocchi, che erano costruzioni basse con il pavimento in terra battuta, quasi senza luce e senz' aria, ma gelide, per gli spifferi che entravano da una quantità di fessure; erano inadatte ad ospitare dei porci. Non disponevamo neppure di un metro quadrato di spazio per ciascuno; lunghe stalattiti di ghiaccio continuarono a pendere sui nostri corpi assiderati e sui nostri sguardi atterriti per tutto il terribile inverno 1944-45; gli allarmi aerei, quasi continui, impedivano le distribuzioni della ormai ridottissima razione, incapace di riscaldarci anche per pochi minuti; nell' intestino si formavano piccole pietre che si evacuavano, con sofferenze atroci ogni otto-dieci giorni; non crescevano più le unghie, né i peli; i nostri crani erano stranamente rimpiccioliti; la tubercolosi faceva strage. Stetti mesi e mesi disteso, immobile su quei luridi "castelli", per risparmiare quelle poche forze che i lunghi appelli stremavano; dopo di quelli rientravamo intirizziti, senza fiato, disperati; la sera passava in lugubri maledizioni; eravamo ormai degli agonizzanti. La mattina del 4 aprile 1945 fummo fatti uscire, repentinamente, dai blocchi 9, 10, 11, 12, "mit Bagage" e fatti passare nel precampo, sotto immensi tendoni: molti di noi non si reggevano in piedi; gli ufficiali tedeschi, al completo, avevano assistito alla manovra inspiegabilmente taciturni e guardavano i nostri corpi vaganti con un' insolita ombra di compassione negli occhi. Il Colonnello Testa ci rivolse un sermone a base di "abbiate fede" e "abbiate coraggio" che ci parve perfino eccessivo. Il fatto era che un tenente tedesco, fuggito poi dal campo gli aveva sussurrato con espressione ansiosa: "Finito... tutto finito... il campo. Non posso dirle altro"; e il capitano Jahn lo aveva preso in disparte dicendogli: "Se vi danno 1' ordine uscite, ma buttatevi per terra appena fuori dal cancello". Pare che fosse venuto 1'ordine di farci fuori e che fortuite circostanze e la paura di rappresaglie, minacciate dalle radio alleate, lo abbiano, all' ultimo momento, impedito.
Scrive il Testa, nel suo libro Wietzendorf: "l' indomani, all' appello, coloro che hanno dormito sotto i tendoni sembrano lividi fantasmi; sono fradici di brina...".
Fummo liberati il mattino del 21 aprile durante una tregua concordata tra tedeschi e americani per farci uscire dal campo e raggiungere le linee alleate, dopo aver passato giornate infernali, in ottanta per stube, tra bombardamenti di ogni genere (i tedeschi, ultima finezza, si erano fatti scudo del nostro campo, piazzandogli attorno mortai potentissimi a sei canne) dopo anche una finta liberazione il 18 aprile con ritorno di SS inferocite. Molti non poterono incamminarsi. Ai più la disperazione, unita alla speranza, diede forza. In un bosco, in prossimità di Berghen, ci venne incontro una jeep montata da ufficiali in divisa scozzese, poi autocarri americani: era la liberazione. La libertà 1' avevamo costruita giorno per giorno, dentro ai reticolati.
Una settimana a Berghen; poi rientrammo al campo di Wietzendorf, che divenne: "Italian Prisoner of War X - Offlag 83". Gli inglesi non capirono nulla della nostra condizione né del nostro sacrificio; per poco non ci classificavano collaboratori dei tedeschi. Il 16 luglio 1945 scrivevo a mia moglie: "per fortuna io non ho mai sperato nulla dalla mia azione, ma è certo che questa trascuratezza nei nostri riguardi suscita nei più un risentimento che distrugge tutto il frutto di questi due anni". Tutti i paesi mandavano commissioni a far rimpatriare i prigionieri; dall' Italia non venne nessuno e gli inglesi ce lo rimproveravano! come se fosse una colpa nostra.
Così si compiva una vicenda tristissima che aveva visto 1' assoluto disinteresse di tutti alla nostra situazione; nessuno, dico nessuno, pronunciò una parola o fece un intervento a nostro favore. La croce rossa che a Lubecca aveva montagne di pacchi e ne aveva distribuito a tutti, a noi Italiani non diede nulla; nessuna potenza si dichiarò nostra protettrice; nessuna autorità si mosse, come nessuno si mosse in difesa degli ebrei, o dei russi condannati alle più dure fatiche tra le quali emergeva quella di trainare, larve d'uomini, carri pieni di sterco.
Oggi a vent'anni di distanza, quella realtà che fu così tragica sembra perfino comica; scegliere la morte lenta per non firmare una carta? Che cosa è una carta? Cipriano dice che tra i primi cristiani molti portavano in tasca una carta, un certificato che essi avevano sacrificato agli dei pagani, che non erano cristiani, per aver salva la vita: erano detti "libellatici". I Quattromila ufficiali superstiti di Wietzendorf che non accettarono di firmare quella carta furono consapevoli del loro dovere di fronte all' umanità travolta dalle tenebre della viltà, dalla tempesta della violenza. Nessuno può immaginare lo strazio di una lunga consunzione per fame né altre pene di una così dura prigionia, ma nessuno potrà neppure immaginare la grande fierezza di quei quattromila straccioni che disobbedivano alla grande potenza armata del terzo Reich e la grande felicità nel vederli impotenti a sottometterli. "I potenti possono sì minacciare ma non comandare".
I mali peggiori della prigionia furono: la mancanza di notizie da casa; l' assenza del minimo filo d'erba in quell' inferno di filo spinato; il sudiciume perpetuo; le interminabili discussioni sulle adesioni; la follia degli affamati, dei quali ciascuno lamentava di aver avuto la parte più piccola, guardando la parte degli altri con gli occhi sbarrati dall' invidia; quel continuo parlare di cibi e di mangiare; quel rimescolare per ore nei gamellini vuoti come se l' anima stesse tutta sulla punta di quel cucchiaio di stagno impotente. La promiscuità pressante, continua; la mancanza di acqua; le spie; gli interpreti altoatesini che con compiaciuta brutalità, comunicavano gli ordini dei comandanti tedeschi; i bambini tedeschi che ci insultavano.
Ci ha confortato l' amicizia di tutti coloro che avevano la nostra stessa fede; la parola coraggio scritta nelle lettere che venivano da casa; la volontà di non chiedere nulla; la certezza di non aver avuto nulla. Ma soprattutto il conforto di scoprire la libertà di una coscienza che sa dir di no, anche se ogni sera, per tante interminabili sere, sa di coricarsi con la morte al fianco. (2)
note:
(1) Su richiesta di Don G. Cavalli, presidente dell' Istituto Storico della Resistenza per la Provincia di Parma, che in una lettera del 2 febbraio 1965 gli chiedeva "la sua testimonianza in quanto parte insostituibile di un tutto che è la liberazione non solo di Parma, ma delle nostre genti", Taverna scrisse per il primo numero della rivista "La lotta di Liberazione nel Parmense" (aprile 1965) l'articolo che segue. (n.d.r.). - Dal libro: Emilio Taverna - Pensiero e Poesia - a cura di Sergio Caroli. Edizioni Scientifiche Oppici - Novembre 1992
(2) Sul calvario della sua prigionia nei lager nazisti Taverna ha lasciato pagine struggenti di memorie raccolte in diversi quaderni, rimasti inediti, che recano per titolo Stelle e spine. (n.d.r.).