Epifani pone un problema reale. I lavoratori dipendenti, anche senza includere nel conto il lavoro precario di varia natura, arrivano al massimo storico di 16 milioni, e sono oltre il 70 per cento della forza lavoro occupata. Eppure, da molti anni, in parallelo alla loro crescita numerica, la quota di reddito nazionale che va a loro, sia che il calcolo venga fatto sul valore aggiunto, che sul Pil, il risultato è analogo, è in diminuzione.
Altri redditi hanno, via via, accresciuto la loro quota a scapito del lavoro dipendente. Non è un caso che del fenomeno si siano accorti anche settori imprenditoriali che, in genere, non parlano volentieri di redditi da lavoro troppo bassi.
Viene di fatto riscoperto il capitalismo alla Henry Ford che, all’epoca, si preoccupava non solo di produrre più auto, ma anche di mettere i lavoratori nella condizione di acquistarle. Altri autorevoli osservatori esprimono preoccupazione: dal governatore Draghi, all’Istat, e tutti segnalano con preoccupazione
la situazione. Anche i sindacati, in occasione delle assemblee sul protocollo sul welfare, hanno potuto misurare il malessere profondo, perfino l’amarezza, dei lavoratori per una condizione retributiva non accettabile.
Naturalmente, la prima risposta è far crescere di più il Paese per avere più risorse da ridistribuire. Per crescere occorre, però, anzitutto, che migliori il reddito di chi ha un ruolo rilevante nella domanda interna, com’è appunto quello dei lavoratori dipendenti. Esiste anche un problema fiscale, perché circa la metà delle entrate arriva dall’imposta sulle persone, dal mondo di chi lavora, e soprattutto dai lavoratori dipendenti, e in parte, molto minore, dal lavoro autonomo e professionale tassato dall’imposta sulle persone fisiche. Anzitutto, esiste, però, un problema di attribuire al lavoro maggiori quote di ricchezza nazionale, che non possono certo essere sostenute dal prelievo fiscale. In altre parole, nulla può sostituire l’aumento delle retribuzioni, anche se la riduzione fiscale può aiutare
a migliorare il potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti. Il sindacato fa benissimo
a porre il problema, tuttavia, è strano che Epifani non colga l’occasione per valorizzare la recente decisione della commissione bilancio del Senato di inserire nell’articolo 1 della legge finanziaria 2008 l’impegno a ridistribuire, proprio ai lavoratori dipendenti, l’extragettito fiscale del prossimo anno. La decisione di privilegiare, nel 2007, gli strati più deboli ha influito per almeno 4 miliardi di euro. Sono convinto che nel 2008 ci sarà ancora un extragettito, utilizzabile cioè oltre gli obblighi di risanamento finanziario. Se sarà così potrà iniziare un circuito virtuoso a favore dei lavoratori dipendenti, a partire proprio dalla riduzione della pressione fiscale su di loro. Si può fare di più? Vediamo, se è possibile certo va fatto. Tuttavia, è una discussione da fare presto perché altrimenti il treno della finanziaria 2008 potrebbe essere già passato. Sono d’accordo che le risorse per ridurre la pressione fiscale sui lavoratori dipendenti possano venire anche da una tassazione sulle rendite finanziarie a un livello unico e più alto, circa il 20%. In sostanza: far pagare di più chi paga poco, per ridurre la pressione fiscale su chi, al confronto, paga troppo. Inoltre, non è del tutto esatto il paragone che viene fatto con il cosiddetto “forfettone” per le piccole aziende perchè si tratta di un’area che può essere considerata marginale, circa il 20%, e che, già oggi, usufruisce di una tassazione ridotta per la scarsa attività economica. Il guadagno per queste aziende è la semplificazione delle procedure. Tuttavia, non si tratta di dare vita ad un reciproco inseguimento, ma occorre partire dal punto centrale: oggi chi lavora guadagna troppo poco e anche il fisco deve aiutare a invertire
la tendenza. Su questo obiettivo la convergenza è possibile e necessaria.
Epifani parla anche del rapporto con la politica e introduce una distinzione tra partito democratico e sinistra, che, francamente, non ritengo accettabili. Da un lato Veltroni riceve una sorta di patente di rispetto dell’autonomia e, dall’altra, la sinistra cosiddetta radicale, è, in blocco, ritenuta invadente il campo dell’attività più propriamente sindacale. È una rappresentazione impropria perché sul versante partito democratico, il problema non è tanto l’autonomia, ma una concezione che attribuisce al lavoro un ruolo secondario, e non è certo casuale che Veltroni, a Milano, abbia chiuso il primo discorso da segretario del partito democratico citando un giovane imprenditore, e non mi risulta che abbia prestato attenzione al “grido di dolore” che viene dal mondo del lavoro. La sinistra, che sarebbe bene non definire più radicale per evitare una citazione in giudizio della Bonino, ha avuto posizioni diverse. C’è chi, forse, ha fatto invasioni sul terreno sindacale, ma anche chi è stato rigorosamente rispettoso dell’autonomia e del ruolo del sindacato e, anzi, si è prodigato per aiutarne le posizioni, raccoglierne le critiche, esprimerne sul terreno politico le ansie. No. Mi dispiace ma con questa rappresentazione di Epifani non sono d’accordo. Capisco che la consultazione è stata una prova vera, con una discussione politica a volte tesa e, tuttavia, questo non giustifica giudizi sommari ed affrettati che finiscono per dare una rappresentazione non corretta delle posizioni in campo. Ad esempio, Sinistra Democratica certamente non merita questo giudizio affrettato.
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