Pubblicato su www.aprileonline.info
e Sinistra democratica news
La crisi finanziaria innescata dai mutui subprime è costata almeno 2300 miliardi di dollari a cui vanno aggiunti gli interventi per tentare di tamponarne le conseguenze. In altre parole, in poco tempo è come se si fosse dissolto il doppio del PIL dell'Italia. Difficile non intervenire per tentare di limitare i danni dello tsunami finanziario in atto, ma non si può chiedere all'intervento pubblico di sparire subito dopo.
Tremonti ha detto che la finanza globale è la peste del XXI secolo e in effetti quanto sta accadendo in questi giorni conferma che la speranza che la crisi finanziaria iniziata con i subprime (ma in realtà iniziata prima, almeno con le truffe come Enron, Bond Argentini, Parmalat, ecc.) potesse risolversi rapidamente si sta rivelando fallace e infatti continuano gli sconquassi finanziari, i clamorosi fallimenti delle banche d'affari, cresce la preoccupazione dei risparmiatori. Le iniziative per cercare di tamponarne gli effetti sono sempre più costose. L'iniziativa del Governo USA è lievitata ormai a 850 miliardi di dollari - se basteranno - e ora la Germania prepara una rete di protezione di 500 miliardi di euro che, tenuto conto del cambio, è paragonabile all'intervento americano.
Facendo un primo conto approssimativo la crisi finanziaria innescata dai mutui subprime è costata almeno 2300 miliardi di dollari a cui vanno aggiunti gli interventi per tentare di tamponarne le conseguenze. In altre parole, in poco tempo è come se si fosse dissolto il doppio del PIL dell'Italia. Senza contare le flessioni delle borse nel mondo, migliaia di miliardi di dollari bruciati.
Oggi (ma solo oggi) pochi negano che la crisi sia stata causata dalla dimensione smisurata della finanziarizzazione dell'economia che per almeno il 90% nulla ha a che fare con un qualunque processo reale nella produzione, nei servizi, nell'uso dell'intelligenza, ecc. Va aggiunto che alla constatazione del disastro non si accompagna un'analoga autocritica. Tanto è vero che l'intervento pubblico per fermare la crisi finanziaria ed economica è visto, in America come in Italia, come temporaneo per poi riconsegnare tutto al cosiddetto mercato.
In altre parole per alcuni, l'intervento pubblico va bene per affrontare la crisi, ed è ovviamente a carico della collettività, appena però la malattia sarà passata tutto tornerà al privato. Le dichiarazioni dei guru americani e della Marcegaglia sono pressoché identiche. Le resistenze al mega soccorso proposto da Bush si spiegano anche con questi atteggiamenti: quando le cose vanno male il problema è di tutti, quando vanno bene i profitti sono rigorosamente privati. Da anni le analisi di Marx non erano così attuali.
Difficile non intervenire per tentare di limitare i danni dello tsunami finanziario in atto, ma non si può chiedere all'intervento pubblico di sparire subito dopo. Il punto che si pone oggi è un nuovo rapporto tra intervento pubblico e mercato, perché la crisi dimostra che il laissez faire è semplicemente incapace di garantire la collettività. Dopo decenni di liberismo dominante, oggi questa dottrina e questa pratica sono in crisi e si delinea un nuovo tipo di capitalismo di stato. Del resto cosa sono i Fondi Sovrani, oggi così importanti, se non fondi di proprietà di uno Stato?
Dopo la crisi del 1929 furono adottati provvedimenti che non si limitavano a tamponare le falle prodotte dai comportamenti improvvidi che avevano portato a quella drammatica crisi prima finanziaria e poi economica, ma intervenivano anche sul funzionamento del sistema che li consentiva e per alleggerire la pressione della crisi sulle classi subalterne.
Ad esempio, il sistema bancario dopo il 1929 era stato ridisegnato in modo da evitare almeno il ripetersi delle modalità che avevano favorito quella crisi finanziaria, prima negli USA e poi nel mondo, Italia compresa, affrontando anzitutto la commistione tra imprese e banche. Infatti prima non c'era una netta distinzione di compiti e di responsabilità. Di nuovo in tempi più recenti si è riproposto il problema. Dopo le crisi dei bond argentini, della Cirio, della Parmalat la commissione di indagine parlamentare italiana aveva indicato l'esigenza di adottare radicali misure di netta separazione tra banca e impresa, per distinguere nettamente tra prodotti finanziari e loro distribuzione ai clienti, ai privati. C'erano tesi diverse, tra chi proponeva misure più radicali come la netta distinzione societaria tra produttore e distributore di prodotti finanziari e chi riteneva sufficiente una separazione organizzativa nella struttura bancaria o finanziaria (le cosiddette muraglie cinesi) ma in ogni caso la tendenza era verso la creazione di un tendenziale conflitto di interessi in modo da proteggere meglio i risparmiatori.
Non a caso nella crisi Parmalat gli Istituti di credito hanno dovuto pagare indennizzi pesanti per avere rifilato prodotti finanziari già considerati invendibili agli ignari risparmiatori.
Ora invece il CICR (comitato presieduto da Tremonti e presente il Governatore della Banca d'Italia) ha deciso di consentire alle banche di acquistare una quota più rilevante delle imprese partecipate, misurando la partecipazione al proprio patrimonio e non più a quello dell'impresa. Questo significa che le banche possono essere coinvolte nei destini delle aziende in termini molto maggiori di quanto fino ad ora previsto.
A questo va aggiunto che è in fase di avanzata approvazione, con l'appoggio della Banca d'Italia, anche una maggiore presenza delle imprese nel capitale delle banche. In sostanza le imprese azioniste diventerebbero in futuro ancora più intrecciate con le banche con buone probabilità di godere di trattamenti di favore nella concessione di finanziamenti da parte delle loro partecipate. Qualche regola di buona creanza è presente oggi negli statuti ma poco di più. Come disse un autorevole imprenditore: compro azioni per fare un investimento ma mi impegno a non pesare nella vita della banca, ma tutto era affidato al suo buon cuore.
In piena crisi finanziaria in Italia continua ad essere depenalizzato il falso in bilancio e sta entrando in vigore una legislazione benevola verso chi fallisce. Insomma si ricreano gli antichi pericoli che contribuirono alla crisi del 1929, e non solo a quella.
Purtroppo anche dal versante europeo vengono segnali contraddittori. Da un lato con Basilea 2 vengono precisati i criteri della capitalizzazione, vista come la garanzia che non vi siano sorprese negative. Dall'altro con le normative che ridisegnano il rapporto tra banca e impresa vengono allentati vincoli e garanzie che contraddicono la precedente indicazione.
Va ricordato poi che dal 1992 è stata superata la distinzione tra le attività bancarie e quelle di investimento consentendo il ritorno alla banca generale che può fare tutto.
La crisi finanziaria in corso impone di rivedere questi ed altri processi. Purtroppo mentre le parole di Tremonti sembrano andare verso maggiori controlli sul mercato finanziario, in pratica il Governo si muove nella direzione opposta, contraddicendo le affermazioni fin qui fatte. Anche Banca d'Italia parla da poco di maggiori controlli mentre per troppo tempo ha affermato che anziché regole più severe era preferibile avere un controllo dell'opinione pubblica sui comportamenti.
Dopo la crisi del 1929 e la seconda guerra mondiale si arrivò a delineare nel mondo un sistema di relazioni finanziarie ed economiche che ha retto per alcuni decenni ma che è poi stato abbandonato e oggi è diventato manifestamente inadeguato dopo la massiccia iniezione di liberalizzazioni. La prima rottura avvenne quando gli USA, che erano stati protagonisti del nuovo ordine mondiale, decisero di abbandonare la convertibilità del dollaro che era la moneta fondamentale, affossando di fatto il sistema senza delinearne un altro altrettanto solido. Il serpente monetario prima e l'Euro dopo sono stati una parziale risposta dell'Europa al caotico mercato finanziario dopo la fine degli accordi di Bretton Wood. Per il resto si è andati avanti per spinte contraddittorie. Anche il G8 sui movimenti finanziari è stata di fatto una sede del tutto inutile, nella quale sono stati fatti al massimo appelli a comportarsi bene.
Ora si pone il problema di non insistere, o almeno non solo, con l'immissione di capitali a buon mercato e a spese dei cittadini per sostenere il mercato finanziario così com'è. Né basterà mettere a carico della finanza pubblica i costi dei guasti creati dalla finanza privatissima. Certo di fronte ad una crisi occorre intervenire ma i soldi dovrebbero essere impiegati per garantire la collettività non per sovvenzionare gli speculatori. Le immissioni di liquidità fini a sé stesse sono solo un modo per trasferire i costi della crisi sulle spalle della collettività e non impediscono il ricrearsi della stessa situazione in futuro.
Occorre ricostruire un rapporto credibile tra l'attività finanziaria e le attività produttive, dei servizi, del lavoro intellettuale, interrompendo la deriva della creazione di ricchezza fittizia attraverso movimenti finanziari destituiti di ogni fondamento reale.
Ci sono prodotti finanziari che semplicemente vanno vietati o almeno fortemente limitati. Non si possono consentire derivati come i futures che ormai fanno il bello e il cattivo tempo sui prezzi delle materie prime, del petrolio perchè di fatto inducono un'aspettativa di prezzo del tutto speculativa che finisce con il determinarne il prezzo reale.
Questi ed altri prodotti finanziari, come i fondi spazzatura, non hanno alcuna ragione di esistere. Quindi ci sono prodotti finanziari che vanno semplicemente esclusi. E' la conferma che occorrono nuove regole sui mercati finanziari in Europa e nel mondo.
Chi può fare questo? Fino ad oggi ha prevalso la tesi che non possiamo adottare provvedimenti finchè non li adottano anche altri. A parte il fatto che oggi chi potesse dare garanzie di trasparenza potrebbe lucrare su un delta positivo perché è del tutto chiaro che la fiducia è crollata e chi per primo dimostrerà di essere affidabile potrà attirare investitori dal resto del mondo. Si pone il problema di una sede mondiale credibile, c'è chi ha parlato di ONU dell'economia. E' vero che l'azione per sminuire il ruolo dell'ONU non aiuta certo oggi ad avanzare ipotesi di questo tipo, eppure non ci sono alternative: o il caos provocato da crisi ricorrenti, puntualmente messe a carico dei cittadini del mondo, oppure un nuovo quadro di regole e di strumenti comprendente la riforma di quelli esistenti in un quadro coerente.
Anche l'Europa deve cambiare in profondità. Emergono tutti insieme problemi come lo squilibrio tra sede politica di governo dell'economia europea (assente) e BCE, ruolo monetarista e conservatore della BCE, regole di Maastricht ormai fuori dal tempo. L'Europa porrebbe svolgere un ruolo positivo per sé e per il mondo nell'individuare sedi e modalità di funzionamento dei mercati finanziari a condizione di individuare una sede di politica economica e di abbandonare il talmud monetarista che fino ad oggi l'ha guidata.
La cosa che lascia interdetti è che la sinistra non ha una reazione all'altezza della sfida. Eppure molte cose le danno ragione, ma sembra quasi che questa conferma sia arrivata troppo tardi. Chi ricorda oggi che la Tobin tax aveva l'obiettivo di controllare i processi finanziari speculativi? Sarebbe veramente curioso che chi ha provocato o permesso la crisi finanziaria, mettendo a rischio i soldi di tutti, oggi fosse anche il protagonista delle soluzioni. Forse sarebbe il caso di svegliarsi.