C’era una volta lo scandalo Parmalat
Dopo alcuni scandali finanziari che hanno impoverito seriamente centinaia di migliaia di azionisti, risparmiatori e lavoratori sembrava che anche l’Italia cercasse di offrire adeguate garanzie contro le truffe, le ruberie di amministratori infedeli avvenute con la complicità di banche importanti. Parmalat insegna, anche se come è noto non è l’unico caso.
In questa materia gli Stati Uniti, dopo lo scandalo Enron, hanno adottato una legge severa come
la Sarbanes-Oxley che ha contribuito a condanne per decenni per i responsabili e a rimborsi per milioni di dollari.
In Italia la legge adottata all’epoca del precedente governo della destra assomiglia molto poco a quella americana e anzi la punizione del falso in bilancio, come è noto, è stata addirittura depotenziata.
Gli ingredienti fondamentali della truffa Parmalat erano i seguenti.
Amministratori che hanno ingannato azionisti, risparmiatori e lavoratori.
Banche italiane ed estere che hanno continuato a vendere azioni di un’azienda ormai insolvente ai risparmiatori, pur di rientrare delle perdite.
Leggi inadeguate e controllori a dir poco distratti, con il risultato di creare un danno pesante agli azionisti, ai risparmiatori, naturalmente ai lavoratori e all’economia nazionale. Pochi ricordano che gli scandali finanziari sono costati all’Italia l’equivalente di 1 punto di PIL
E’ significativo che l’attuale amministratore della Parmalat, che ha risanato l’azienda, abbia ottenuto in restituzione centinaia di milioni di euro da quasi tutte le principali banche implicate. Se le banche hanno pagato evidentemente qualche responsabilità c’era e qualcuno dei loro responsabili è stato anche messo sotto accusa dalla magistratura insieme agli amministratori infedeli dell’azienda.
La discussione che ne era seguita aveva esplicitamente indicato tra i rimedi necessari la separazione delle responsabilità tra chi vende prodotti finanziari ai clienti e chi invece li confeziona. Tanto è vero che si è parlato di “muraglie cinesi” da erigere per separare i diversi settori di attività delle banche e delle finanziarie con lo scopo di evitare conflitti di interesse e quindi di proteggere meglio i lavoratori, i risparmiatori, gli azionisti, i cittadini.
A parte che come è noto le muraglie cinesi in realtà non hanno protetto
la Cina dalle invasioni, resta il fatto che quel dibattito cercava di rispondere all’esigenza di trasparenza resa necessaria da truffe miliardarie.
Ora il redivivo CICR (comitato per il credito e il risparmio), organo che avrebbe dovuto essere da tempo abolito, decide che non solo le muraglie cinesi non sarebbero più necessarie ma abbatte con noncuranza una linea di garanzia come la limitazione della partecipazione delle banche al capitale delle imprese, che viene elevata di molto. Può essere che la decisione nasca in previsione di ciò che sarà necessario per Alitalia, anche se è come abbattere un albero secolare per ricavarne uno stuzzicadenti
Settori finanziari e imprenditoriali, italiani e mondiali spingono da tempo in questa direzione, dimenticando che questa limitazione legislativa è nata dopo il crac del 1929 e tendeva a distinguere tra gli interessi delle banche e quelle delle imprese, secondo il principio che due punti di vista distinti, con distinte responsabilità anche legali, garantiscono meglio azionisti, risparmiatori, lavoratori e collettività nazionale. Principio tuttora valido.
Il Governatore della Banca d’Italia ha fatto dichiarazioni curiose a sostegno di questa scelta, affermando che oggi gli strumenti di controllo esistenti consentirebbero di evitare guai, assumendo così su di sé una ben grave responsabilità.
Forse è bene ricordare che lo scandalo Parmalat è emerso dopo un semplice fax falso, prodotto con normali forbici, e nessuno se n’è accorto, se non troppo tardi. Del resto Banca d’Italia ha sempre sostenuto che la centrale dei rischi non segnalava alcunché di anomalo su Parmalat. Forse è bene ricordare che non risultano novità sconvolgenti negli strumenti di controllo del mercato finanziario. Quello che c’è oggi c’era anche prima. Anzi questo è proprio il momento in cui la tentazione di mischiare in modo improprio gli interessi tra impresa e banca può essere ben presente.
Quindi sarebbe preferibile maggiore prudenza, perché il problema è semmai oggi di allargare il conflitto di interessi a fini di maggiore controllo della trasparenza nei mercati finanziari, non di ridurlo.
Spiace dirlo ma Banca d’Italia si è mossa al contrario, aprendo oggi l’intervento nel capitale delle imprese a incursioni finanziarie italiane ed internazionali preoccupanti.
Perché il Ministro Tremonti ha accettato questa scelta ? E’ una contropartita alle banche per le tasse più pesanti ? Se fosse così il gioco non vale la candela perché questa volta cambierà a fondo la natura degli intrecci tra banche e imprese e sarà sempre più difficile impedire all’impresa che ha un pacchetto di azioni di diventare una partecipata privilegiata, una sorta di incesto finanziario. Del resto se si aggiungerà a questa prima decisione del CICR la preannunciata legge che liberalizzerà anche la partecipazione azionaria delle imprese nelle banche il gioco sarà completato: avremo un intreccio tra banche ed imprese da far rivoltare nella tomba quanti hanno cercato con nuove regole di evitare un nuovo disastro come quello del 1929. Purtroppo le conseguenze di tutto questo non sarebbero per pochi interessati alla materia, che è solo all’apparenza specialistica, ma per tutta l’Italia che da oggi è più esposta a intrecci innaturali e, con buona pace del Governatore, poco controllabili, se non ex post. Dopo il disastro, come nel 1929.
Alfiero Grandi