Il segretario generale dell’ONU se n’è andato prima delle conclusioni, prendendo fisicamente le distanze dal vertice mondiale Cop26 di Glasgow sul clima, che avrebbe dovuto decidere le azioni concrete per mantenere l’aumento della temperatura del pianeta al di sotto di un grado e mezzo. Quando il presidente di Cop26 per conto dell’ONU ha annunciato le conclusioni con un groppo in gola si è capito che stava arrivando la conferma della delusione per un esito molto al di sotto delle aspettative, per certi aspetti un evidente passo indietro. Se si afferma che occorre uscire dalle fonti fossili per produrre energia e poi si reintroduce il carbone – che avrebbe dovuto essere eliminato con l’accordo di tutti entro pochi anni essendo la fonte fossile che produce la maggiore quantità di CO2 – è evidente che è impossibile essere ottimisti sulle conclusioni del Cop26.
Del resto il G20 di Roma aveva trovato una sintesi conclusiva sfumando e rinviando. Scrivendo nel documento conclusivo a metà del secolo anziché un rotondo 2050 come data limite per rendere le iniziative umane neutrali nell’inquinamento dell’atmosfera. I paesi del G20 hanno deciso di annacquare le loro conclusioni su due punti fondamentali: 1) aiuti ai paesi più poveri ed esposti alle ingiurie del clima, già decisi ma arrivati solo in parte e per di più con il contagocce; 2) tempi certi per arrivare al contenimento dell’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi. La riunione del G20 ha rinviato alla riunione della Cop26 di Glasgow i suoi nodi irrisolti e il risultato è stato un ulteriore arretramento.
È quindi giusto essere preoccupati, perché di questo passo l’obiettivo di 1,5 gradi come limite massimo non verrà raggiunto, con il rischio concreto che il clima del pianeta vada fuori controllo. Non sono bastati gli allarmi degli scienziati, delle organizzazioni, dei giovani, dei paesi che stanno già pagando il prezzo maggiore, neppure l’allarme della conferenza degli scienziati dell’ONU. Avere chiarito la gravità della situazione amplifica la delusione per le conclusioni, chiaramente inefficaci e insufficienti. Eppure, in questa occasione è stato fatto molto per cercare di fare entrare nella conferenza ufficiale anche i punti di vista e le aspettative dei giovani, ma non è bastato, anzi forse finisce con l’amplificare la delusione perché è comprensibile che coloro che in forme diverse hanno partecipato poi rimangano ancora più delusi.
Il delegato speciale del Presidente Biden sul clima, Kerry, ha cercato di attenuare la delusione parlando di risultati vicini all’obiettivo, versione poco credibile. È sperabile che Kerry riporti ai responsabili negli Usa, a partire dal Presidente, che questo risultato deludente si deve anzitutto ad una loro scelta politica che ha individuato più avversari che partners per le scelte di fondo, a partire da Cina e Russia. Solo all’ultimo gli Usa hanno cercato di recuperare un rapporto con la Cina, ma in un tardivo rapporto a due che ha escluso l’Unione Europea, confermando una politica estera random degli Usa. Eppure Biden aveva appena cercato di recuperare la frattura con la Francia sui sottomarini con un’autocritica esplicita, senza dimenticare che questo è avvenuto perché gli Usa hanno scelto di costruire una cintura ostile verso la Cina. Inoltre, i paesi più ricchi, e gli Usa certamente lo sono, hanno dimostrato che sulle risorse chieste dai paesi più colpiti e poveri hanno avuto posizioni arretrate e poco solidali, e su questo l’India, il SudAfrica e altri produttori e consumatori di carbone hanno chiarito che senza aiuti certi per la loro transizione ecologica non prenderanno sulle loro spalle questo onere troppo pesante. Può essere un suicidio collettivo, ma questo è quanto è avvenuto.
L’emendamento dell’india, che ha cambiato una parola di fondo nel documento sul carbone, non più eliminazione ma riduzione nel tempo senza precisare ulteriormente, poteva non essere accolto? Non era meglio chiarire le posizioni e prendere altro tempo? Questa finta unanimità a cosa serve?
A questo punto, dopo la delusione di Glasgow, occorre rilanciare una strategia di interventi forti per avanzare verso l’obiettivo di un massimo di crescita della temperatura del globo entro 1,5 gradi. Chi può deve proseguire. L’Europa ha un ruolo da svolgere, ma deve scegliere con nettezza, e l’Italia in questo ambito deve svolgere un ruolo forte, perché l’obiettivo non può essere solo gestire al meglio le conferenze ma arrivare a risultati concreti. Perché proprio questo è il problema. Occorre interrompere il circuito perverso in cui la ruota che non gira decide della velocità del veicolo.
Non abbiamo un pianeta di ricambio, non possiamo tradire le aspettative dei giovani, non possiamo lasciare che la situazione proceda su un asse inclinato verso il disastro.
Occorre che ogni paese, ogni cittadino dia il suo contributo al massimo possibile senza chiudersi in una difesa dello status quo. Così si va a sbattere. Per contrastare il piano inclinato occorre che le misure ritenute indispensabili vengano adottate e che venga avviato un lavoro di contatti e di accordi multilaterali. Il multilateralismo è stato citato da Draghi, Kerry ha tentato all’ultimo di coinvolgere la Cina, ma la strada da fare è lunga e presuppone un cambiamento di approccio degli Usa, insieme all’Unione europea, con la Cina, con la Russia, con l’India, con altri paesi che non accettano di pagare il conto di quanto consumato da altri nei decenni precedenti. L’aumento degli armamenti, delle spese militari nel mondo contraddice scelte comuni per il clima e la solidarietà per affrontare oneri che non possono ricadere sulle spalle di chi non può permetterselo. Non c’è posto per tutto. Il rapporto con la Cina non è facile, ma non ha alternative, lo scontro invece può portare a guai seri.
Certamente non è facile il confronto tra sistemi politici ed istituzionali così diversi e tuttavia il mondo non ha alternative a iniziative di disarmo, di distensione nei rapporti, cercando di uscire dalla logica, di destra, del nemico esterno per compattare. C’è un trattato internazionale sulla proibizione delle armi nucleari che l’Italia non ha ancora firmato, perché? Si tratta di una scelta politica importante che ha implicazioni di per sé sulle alleanze internazionali e sull’Unione europea, nel cui ambito la Francia insiste per restare l’unica potenza nucleare.
Le difficoltà sono essenzialmente dovute ad una concezione delle relazioni internazionali che anziché sfidare sulla distensione e sulla cooperazione punta alla competizione se non ad una confrontation che potrebbe perfino sfociare in scontri militari. Occorre recuperare lo spirito che un mondo diviso in blocchi contrapposti riuscì a trovare prima che il disastro coinvolgesse tutti. Sull’orlo dell’abisso ci si fermò in tempo. Oggi? Non c’è la stessa chiara visione, forse perché i blocchi non ci sono più, forse perché la pur enorme forza militare non è più in grado di vincere con certezza, come in Afghanistan.
Il pianeta è uno solo per la guerra e per il clima e occorre ricordarlo sempre, facendo discendere da questo ben altro scenario. L’Unione Europea non ha una linea politica precisa. Fa scelte importanti come il Next Generation Eu e il progetto Fit for 55% che vuole realizzare risultati di svolta entro il 2030, ma poi si contraddice per vecchie concezioni, per ritardi culturali e il troppo ascolto di interessi conservatori. Le imprese lamentano che l’Unione non li ascolta, ma se li ascolterà annacquerà non poco la linea della transizione ecologica, perché nel mondo delle imprese la resistenza ad un progetto paese ed europeo per cambiare è molto forte. Eppure anche in un settore difficilmente compatibile con l’ambiente come l’acciaio si potrebbero prendere più piccioni con la stessa fava. Innovare le acciaierie con una svolta green, ambientalmente accettabile, superando definitivamente il carbone, stabilendo che l’intesa Europa/Usa sui dazi verso l’acciaio “sporco” importato si realizzi rapidamente, di conserva con la svolta green, stabilendo un nesso tra le scelte delle rinnovabili (ad esempio eolico offshore) che richiedono acciaio e la sua produzione nazionale, in sostanza un piano. Altrimenti che senso ha che la maggioranza azionaria diventi pubblica se tutto resta come prima?
Come l’acciaio c’è la produzione di energia, con Terna che sta facendo ricche aste per favorire l’uso del gas per produrre energia elettrica, malgrado sia un’azienda pubblica, e che sta realizzando il raddoppio dell’elettrodotto nord-sud per portare l’energia prodotta dalla rinnovabili al Sud verso il Nord. Al sud non ce n’è bisogno?
Glasgow non è andata bene ma questo non vuol dire tana libera tutti come hanno inteso Confindustria, Eni ed altri, semmai impone di ripensare agli errori compiuti ed accelerare al massimo verso le rinnovabili. È curiosa la labilità dei ricordi di quanti vogliono rilanciare il nucleare in Italia dopo due referendum vinti dal NO, se ne può sempre fare un altro. Suggerisco di leggere Macron che spinto dalle difficoltà elettorali vuole rilanciare il nucleare, che in Francia è civile perché c’è anche il militare e viceversa. I costi sono sempre stati un eccetera. Macron ha ammesso che la “sòla”, che Sarkozy stava rifilando all’Italia, per fortuna bloccata dal referendum nel 2011, il famoso Epr di III generazione più, iniziato nel 2007 a Flamanville forse verrà finito nel 2023, rinviando di anno in anno l’entrata in servizio, oltre 10 anni di ritardo, come del resto accade al gemello di Okiluoto in Finlandia, con un costo che ormai è a 19 miliardi di euro contro i 3,2 preventivati.
Se la Francia vuole rilanciare il nucleare lo faccia con i soldi suoi, non con i fondi europei, come sta cercando di fare ora. La quarta generazione del nucleare da fissione è solo nella fantasia di chi, per propaganda, vuole farlo apparire come prossimo e per ora è certamente sicuro solo perché nel mondo non c’è. In realtà il governo italiano dovrebbe semplicemente rilanciare le rinnovabili con un piano forte e ben finanziato per arrivare entro il 2030 ai 70 Gigawatt promessi. Questa sarebbe la migliore risposta all’aumento largamente speculativo dei prezzi dei combustibili fossili, verso il quale c’è un balbettio inconcludente, mentre lanciare un forte piano sulle rinnovabili sarebbe un modo sicuro per abbassare costi e prezzi.
Le rinnovabili possono essere per l’Italia quello che è il nucleare per la Francia.
Quindi ora tocca a noi, Italia, Europa, Occidente sviluppato, fare una scelta strategica per salvare il pianeta.