In questi giorni Afghanistan, Iraq e Libano lo ricordano al mondo
(articolo di Alfiero Grandi su www.jobsnews.it - 26/10/2019)
Papa Francesco ha denunciato nel mondo una guerra frammentata, ma non per questo meno grave, per numero di morti, di profughi, di sofferenze umane e sociali, per devastazioni. Ha ragione. Non basta che la guerra non riguardi direttamente l’Europa in cui viviamo (anche se non lontano dall’Italia ci sono tuttora focolai non risolti) e altre zone del nostro pianeta più fortunate, conta che ci siano zone ampie di guerre che sembrano senza fine e ai cui protagonisti vengono vendute armi prodotte proprio nelle nostre aree. Il peso degli affari in armi sono tanto forti da prevalere su tutto. Il tradimento Usa dei curdi è solo l’episodio più recente e più odioso, non solo perchè riguarda un popolo che soffre da decenni e che pensava di avere conquistato il diritto alla propria identità sul campo nella lotta contro l’Isis, pagata con prezzi umani enormi e tuttavia riuscendo a introdurre nell’area segni di civiltà e dignità delle persone a partire dalle donne. Ora i curdi debbono sottostare, sotto il ricatto dello sterminio turco, alle condizioni di sopravvivenza
che porranno loro Assad e Putin. Pochi hanno notato che al tradimento si è aggiunta una beffa con la decisione di Trump di lasciare nell’area un contingente militare americano, non per difendere la vita delle persone ma – guarda caso – per custodire i pozzi petroliferi della zona.
La guerra diffusa riguarda aree diverse e distanti del mondo, in particolare in Asia, in Africa e sembra non avere possibilità di soluzione. Le potenze politico militari provocano destabilizzazioni e guerre che però non sanno come concludere, come insegna da ultima la Libia. Quando il vaso di Pandora della guerra è scoperchiato diventa difficile richiuderlo, a volte impossibile, fino a dare per scontata la convivenza con gli attentati, l’uso diffuso delle armi, perfino la soggezione di interi popoli.
La stabilizzazione è un sogno, in questi giorni Afghanistan, Iraq e Libano lo ricordano al mondo.
Il ruolo dell’Onu è tragicamente insufficiente perchè le potenze che potrebbero incoraggiarne la funzione di interposizione, di stabilizzazione e di pace sono quelle che ne paralizzano gli interventi. Le risoluzioni dell’Onu, quando ci sono, non hanno effetti o si limitano a prendere atto dei fatti compiuti. La denuncia di Papa Francesco oggi si accompagna e si intreccia con altro non meno grave come situazioni di vera e propria rivolta interna in tanti paesi che hanno in comune con le situazioni di guerra tradizionale condizioni di vita inaccettabili, senza speranza. In America latina diversi paesi, per ragioni in parte diverse, sono di fronte a tensioni inimmaginabili fino a poco tempo fa. L’affermazione del Presidente del Cile “siamo in guerra” è tremenda ed esplicita e ha avuto come prova l’uso dei militari e dei carri armati per tentare di reprimere la rivolta. Senza stabilire automatismi è un fatto che la globalizzazione che abbiamo conosciuto è stata l’occasione per frantumare il potere e il ruolo delle classi sociali non dirigenti, di volta in volta definite in modo approssimativo ceto medio, rendendo esplicita una divaricazione sociale crescente tra ristrette oligarchie sempre più ricche e potenti e la grande massa della popolazione impoverita, preoccupata per il futuro, relegata in modo crescente nella povertà e nell’emarginazione.
Questa divaricazione crescente della ricchezza e del potere genera un malcontento fortemente caratterizzato da pulsioni distruttive e si intreccia con la ricerca di spazi territoriali ritenuti più adatti ad affrontare la propria condizione. La ricerca di spazi identitari più vicini e limitati sembra spesso la dimensione in cui si ritiene di fare valere il proprio punto di vista. La democrazia è messa pesantemente alla prova su diversi piani e manifesta evidenti difficoltà a favorire le soluzioni. Se la democrazia non è in grado di regolare e incanalare la soluzione dei conflitti sociali e tra aree territoriali e stati nazionali si apre una crisi in cui la democrazia stessa rischia di entrare in crisi, di lasciare spazio al miraggio di soluzioni autoritarie e personalistiche, senza adeguati contrappesi, in sostanza derive autoritarie e ideologiche. La composizione dei punti di vista e dei conflitti non ha alternative come dimostra la situazione in Catalogna, dove un conto è registrare un contrasto duro e cercare di affrontarlo, altro è ritenere di poter risolvere la situazione per via giudiziaria con condanne durissime. Inoltre se la risposta è solo la repressione dura dov’è la differenza con Hong Kong? Il pensiero unico della globalizzazione rischia di essere messo in alternativa al pensiero unico prevalente di una comunità imposto a sua volta con ogni mezzo, come in Polonia e in altri paesi in cui risorge l’ideologia di stato.
La democrazia come confronto, compromesso, coesistenza e soluzione di punti di vista diversi tende a lasciare il posto a nuovi autoritarismi ideologici.
Ci sono soluzioni, che piacciono molto a settori economici proprio perché sembrano in grado di imporre il loro ordine, come il sistema cinese che per ora garantisce autoritariamente la crescita all’interno ma al prezzo di settori della popolazione letteralmente segregata e di regole autoritarie di decisione. C’è un’alternativa a questo mondo che sembra per certi versi impazzito, ingovernabile? Proprio quando è a rischio la sopravvivenza della specie umana per la crisi ambientale, quando il controllo e la riduzione degli armamenti e delle guerre per risolvere i problemi e gli stessi conflitti è in crisi evidente come dimostra il vanto di Putin sulla disponibilità di un nuovo missile in grado di colpire in ogni parte del mondo. Queste affermazioni ricordano da vicino le vanterie del dittatore della Corea del Nord confermando che è in atto una drammatica rincorsa degli armamenti dovuta sia all’insicurezza e alla volontà di dominio. America first copre in realtà una scelta di rincorsa agli armamenti. La spinta agli armamenti deriva certamente dall’aumento degli enormi affari relativi ma anche da nuovi parametri ideologici che considerano l’uso della guerra come regolazione dei rapporti di forza. Questa deriva provoca la crescita di tensioni con esiti imprevedibili, spesso ingovernabili.
La contraddizione è evidente. La situazione reale spingerebbe a risolvere pacificamente, a limitare e ridurre il peso degli armamenti, a usarne per scopi pacifici le risorse in aumento senza freni. La situazione dovrebbe spingere a un nuovo equilibrio tra realtà locali e realtà statuali, tanto più che il confronto mondiale avviene tra potenze di grande forza economica e militare e quindi, come in Europa, occorre più che mai avere un quadro di insieme che contenga i diversi aspetti superando egoismi, visioni limitate, illusorie fughe. Le tensioni crescenti, in particolare sociali, all’interno delle diverse realtà nazionali confermano che la dimensione nazionale esiste ma è insufficiente se non è rivolta al governo complessivo dei processi.
La verità è che la dichiarazione di Buffet che la guerra di classe esiste ma l’abbiamo vinta noi è purtroppo largamente vera ma è anche all’origine di tensioni e conflitti che si pensa di risolvere con il ricorso crescente alla forza, perfino alla guerra. Chi ha vinto rischia di portare alla conclusione peggiore la civiltà che conosciamo. Chi non vuole questo, in nome dell’etica, del futuro delle nuove generazioni, chi non vuole lasciare la situazione peggio di prima dovrebbe porsi il problema allo stesso livello globale, altrimenti di fatto rinuncia a contendere i fondamenti delle scelte.
A relazioni umane fondate sulla guerra e la repressione occorre reagire con una piattaforma altrettanto forte, con un nuovo umanesimo condiviso. La sinistra non è mai stata così debole, divisa, poco internazionalizzata e ha finito per essere subalterna a quanto accade, al punto che hanno acquisito forza le tesi che destra e sinistra sarebbero superate.
Eppure di sinistra c’è bisogno. Anzi la sinistra esiste comunque in tanti aspetti della vita sociale e pubblica ma finora non ha trovato una espressione di valori e politica convincente e questo è il vero problema con cui dovremo misurarci. I movimenti sono importanti, basta pensare a come è cresciuta la consapevolezza ambientale grazie all’impulso di tanti giovani a partire da Greta, ma la risposta politica resta necessaria, altrimenti il rischio per il futuro di tutti noi è enorme.