Il referendum costituzionale di ottobre e i referendum abrogativi nel 2017. Chi pensa che la Costituzione vigente sia obsoleta dovrebbe proporre di cambiarne l’assetto in modo esplicito. Con le riforme approvate, l’unica camera pienamente decidente sarà subalterna al governo e avrà il compito di ratificarne le scelte. I prossimi referendum sono una battaglia che non si può evitare: è una battaglia decisiva per la nostra democrazia.
La sinistra ha partecipato alle competizioni referendarie, a volte ha contribuito in modo determinante a vincerle, ma non ha avuto un rapporto lineare con questo strumento, mai interamente inserito in una strategia di partecipazione democratica.
Lo strumento referendario previsto dalla Costituzione è certamente da valutare con attenzione per le sue potenzialità, per gli aspetti controversi, per i problemi che apre. Le conseguenze dei referendum, se non previste o almeno affrontate, possono essere molto diverse da quelle immaginate.
Il referendum è uno strumento di forte semplificazione e quindi è un cuneo capace di determinare un cambiamento della situazione esistente, anche radicale. In molti casi apre spazi che richiedono risposte politiche e che lo strumento referendario in quanto tale non è in grado di dare.
Costituzione obsoleta? Il dovere di dichiararlo
Distinguerei due grandi campi referendari. Uno riguarda le modifiche della Costituzione. Per tutta una fase gli interventi sulla Costituzione si riferivano ad aspetti compatti, che l’elettore poteva valutare senza troppa fatica nelle conseguenze. Qualche decennio fa è iniziata una spinta a modificare insieme più aspetti della Carta costituzionale, spesso molto eterogenei. In parte per iniziativa della destra di origine neofascista, che si sentiva esclusa dalla Carta nata dalla Resistenza, e quindi ha premuto per partecipare alla costruzione di una nuova Costituzione. In parte per iniziativa della parte maggioritaria della sinistra, che ha accettato o promosso commissioni bicamerali come strumento per rivedere contemporaneamente molti aspetti della Costituzione.
Questi tentativi sono falliti ma hanno lasciato sul terreno un mutamento di atteggiamento pericoloso, come quello di contribuire a legittimare cambiamenti della Carta costituzionale di grande ampiezza nello stesso provvedimento, senza troppo riguardo né per la coerenza con il testo originario, né per le contraddizioni interne alla parte innovativa. I cittadini così non sono messi nelle condizioni di comprendere il senso reale dei cambiamenti proposti.
La legge Renzi-Boschi arriva in coda a questo periodo di velleità riformatrici e ne è in una certa misura l’erede. Nel senso che conferma l’errore di voler ritoccare la Carta costituzionale in aspetti fondamentali contemporaneamente, uscendo dal solco della continuità logica e politica della Costituzione originaria. Come del resto ha evidenziato un consistente gruppo di costituzionalisti non pregiudizialmente contrario ai cambiamenti.
Nella fase attuale il revisionismo costituzionale non sembra preoccuparsi di scrivere bene un testo coerente e destinato a durare nel tempo. Inoltre viene affidato alla legge elettorale il compito di garantire la governabilità a ogni costo, anche con risultati elettorali non esaltanti, con il retropensiero di rendere possibile in seguito il completamento del percorso iniziato.
Al termine di questo percorso si può intravvedere o una repubblica semipresidenziale o un premierato forte, molto forte.
Se Enrico Letta annuncia che nel referendum costituzionale voterà a favore di queste modifiche, conferma che esiste una linea di sostanziale continuità tra i diversi passaggi politici di questi anni, anche se non sono mancate rotture interne, perfino sgambetti, come la brusca sostituzione dello stesso Letta da parte di Renzi.
Ritocchi e modifiche limitate possono restare nell’ambito dell’impianto della Costituzione, ma se si cambiano 47 articoli, come in questo caso, è abbastanza inevitabile che l’assetto complessivo e l’equilibrio interno immaginati dall’Assemblea costituente vengano compromessi.
Chi pensa che la Costituzione vigente sia diventata obsoleta e debba essere cambiata dovrebbe avere il coraggio e la linearità di avanzare la proposta di cambiarne l’assetto con una logica costituzionale e istituzionale coerente, sottoponendola al giudizio degli elettori.
Se, ad esempio, si pensa che si debba spostare l’equilibrio costituzionale verso forme di presidenzialismo si ha l’obbligo di dirlo esplicitamente. Si tratta infatti di una scelta politico-istituzionale completamente diversa e i cittadini dovrebbero potere valutare e giudicare la proposta di cambiamento della Costituzione. Altrimenti si scade nei trucchetti di bassa lega, ben presenti nel testo della Renzi-Boschi, su cui non a caso si stanno esercitando criticamente i costituzionalisti, che ne sottolineano pessima scrittura, contraddizioni, manchevolezze, talora vera e propria incomprensibilità.
Chi vuole ribaltare l’assetto costituzionale dovrebbe avere il coraggio di proporre una nuova modalità costituente e vedere l’effetto che fa tra le elettrici e gli elettori.
Cambiare di fatto radicalmente l’impianto costituzionale senza esplicitarlo è la peggiore scelta possibile, che può passare solo vellicando i peggiori umori antipolitici e populisti presenti nel corpo sociale. A questo serve lo scalpo della riforma costituzionale, la riduzione del numero dei senatori.
Se invece si pensa che l’impianto della Costituzione sia sostanzialmente valido ci si dovrebbe limitare a ritocchi e aggiornamenti che non ne cambino l’assetto fondamentale.
Colpe pregresse della sinistra
Purtroppo la sinistra non ha ben meritato in materia di modifiche della Costituzione. In passato non solo si è imbarcata nella commissione bicamerale con non poca leggerezza, ma nel 2001 ha modificato il Titolo V, che riguarda i poteri delle Regioni e degli Enti locali, con i voti della sola maggioranza. Paradossalmente è una delle parti che viene ribaltata dalla Renzi-Boschi, utilizzando in modo spregiudicato i demeriti della modifica del 2001.
C’è chi distingue, quasi fossero parti tra loro indipendenti, tra i diritti fondamentali contenuti nella prima parte della Costituzione e l’assetto istituzionale vero e proprio delineato nelle altre parti della Carta. La nostra Costituzione è stata redatta in modo da renderla ben comprensibile e funzionale, con forti tratti di organicità. L’assetto istituzionale della Carta è in larga misura coerente, con l’articolazione immaginata di una democrazia viva, partecipata. Se tutto si riduce al voto ogni cinque anni, il ruolo dei partiti viene definitivamente archiviato per lasciare posto alle primarie, anch’esse forme di partecipazione di tipo elettorale, pessimamente regolate o non regolate affatto, concepite in funzione del voto vero e proprio.
Se tutto si riduce a primarie ed elezioni, la partecipazione politica viene ridotta ai minimi termini, essenzialmente a una delega ogni cinque anni, e così i corpi sociali intermedi verrebbero definitivamente ricacciati ai margini, ridotti ad associazioni private senza alcun vero ruolo pubblico. La stessa solidarietà diventerebbe poco più che carità interna a gruppi di privati. Il futuro dei soggetti sociali verrebbe ridotto a gruppi di pressione (lobbies) nelle occasioni elettorali. Con queste modifiche i diritti fondamentali entrano – in realtà – nella piena disponibilità dell’azione del governo e della maggioranza che lo sostiene, dei condizionamenti dei poteri forti. Il governo potrebbe fare e disfare – senza alcun impaccio reale – l’equilibrio della società, dei diritti dei cittadini, ecc.
L’altro grande campo è quello dei referendum abrogativi di leggi ordinarie. Dei referendum propositivi per ora non c’è possibilità e difficilmente sarebbero compatibili con l’evoluzione istituzionale attuale, perché potrebbero alterare l’azione dei governi, che invece si vuole rendere del tutto autosufficiente, fino all’autoreferenzialità.
I referendum abrogativi propongono la cancellazione di norme. Possono essere costruiti più o meno sapientemente, ma in ogni caso prima della loro effettuazione la Corte costituzionale si pronuncia sulla loro ammissibilità, che in pratica viene richiesta non dai pochi proponenti il quesito referendario ma da (almeno) 500.000 firmatari. Quindi i 500.000 firmatari sono il vero soggetto collettivo che può far giudicare l’ammissibilità del quesito dalla Corte costituzionale.
Ci sono stati importanti referendum abrogativi che attraverso la vittoria del No hanno bloccato tentativi conservatori di rimettere in discussione leggi come il divorzio e l’aborto. Autentiche conquiste civili, arrivate con grande fatica come risultato di un’evoluzione epocale della consapevolezza dei cittadini sui loro diritti e dalla capacità di farli valere in autonomia da condizionamenti altrui.
Ci sono stati referendum che hanno cercato di fermare attacchi alla condizione di lavoro, come quello sulla scala mobile, che però non ha raggiunto l’obiettivo per divisioni interne ai sindacati, al mondo del lavoro, nello stesso schieramento della sinistra che lo aveva promosso.
Un altro referendum contro la doppia preferenza raggiunse il risultato e incanalò una forte spinta dell’opinione pubblica verso la trasparenza elettorale, tuttavia non arrivò al risultato atteso.
Ci sono stati referendum che hanno centrato due volte, a distanza di 25 anni, il risultato, come quelli contro il nucleare civile, an¬che se sarebbe un errore pensare di avere eliminato il tentativo di rimettere in discussione la decisione, che infatti riappare regolarmente.
C’è stato un referendum vittorioso per l’acqua pubblica, o bene comune, lungamente preparato da una campagna di radicamento nel paese durata molti anni, esattamente l’opposto di campagne referendarie dei radicali promosse da gruppi ristretti, anche se, per la verità, ciò è avvenuto non solo per iniziativa dei radicali.
L’elemento comune dei referendum del 2011 – sul nucleare e sull’acqua – è che hanno rotto l’incantesimo del mancato raggiungimento del quorum dopo più di venti anni, convincendo ventisette milioni di italiani ad andare a votare e quindi riuscendo a convincere che la partecipazione al voto in quell’occasione era importante e il successo era possibile. Infatti si sono mobilitati un milione e mezzo, forse due milioni di persone per sostenerne tali obiettivi. I partiti già erano malmessi, ma non ancora allo stato comatoso attuale, tuttavia restarono del tutto a rimorchio delle scelte referendarie, tanto è vero che le indicazioni di voto arrivarono molto in ritardo, a ridosso delle urne.
Nel 2011 si formò un’area di partecipazione attiva invidiabile. Era senza dubbio una base potenziale, necessaria ma non sufficiente, per creare un evento politico nuovo, perfino un partito, uno schieramento.
Purtroppo questo messaggio non è stato raccolto. In particolare a sinistra è stata lasciata cadere una domanda formidabile di partecipazione. Non è certo un caso se il centrosinistra non è riuscito a superare la crisi seguita alla caduta del secondo governo Prodi, mentre il Movimento 5 stelle è balzato da percentuali modeste, in pochissimo tempo, a dimensioni del tutto importanti, fino a diventare oggi un potenziale competitore primario.
Quanto detto non ha la pretesa di delineare una storia delle iniziative referendarie ma soltanto di ricordare alcuni episodi significativi che rendono giustizia all’uso di uno strumento adatto a scelte politiche mirate per respingere o per confermare norme di legge, senza sottacerne le implicazioni generali, che tuttavia non sono un effetto automatico del risultato dei referendum, ma ne costituiscono il potenziale sviluppo a condizione che ci siano uno o più soggetti politici in grado di trarne le conseguenze.
In ogni stagione politica i referendum hanno assunto significati diversi, intrecciati alla fase politica e sociale, a volte difensivi, a volte di pressione per avanzamenti. Non c’è una spiegazione unica dell’iniziativa referendaria perché ognuno di essi va collocato nella fase in cui viene promosso.
La droga “porcellum”
Il Pd non ha vinto le elezioni nel 2013, non solo perché ha subito il governo “tecnico” di Monti e i suoi provvedimenti senza rivendicare la libertà di respingerli o almeno di cambiarli, ma anche perché non ha tentato di trarre beneficio dai risultati referendari del 2011.
Anzi ha dato l’impressione di attendere solo l’esaurimento della loro spinta. Eppure i referendum del giugno 2011 hanno contribuito a indebolire fortemente la credibi¬lità del governo Berlusconi pur sostenuto da un’ampia maggioranza parlamentare.
Nel risultato elettorale del 2013 il Pd (e la coalizione che guidava) ha beneficiato dei seggi “regalati” dal “porcellum”, ma dopo non ha trovato di meglio che la sostanziale continuità politica di Letta con Monti, a capo di un governo di larghe intese. Per questo la brutale detronizzazione di Letta da parte di Renzi è sembrata una guerra di palazzo. Tutta l’azione politica del suo governo faceva a pugni con le domande, le spe¬ranze indotte dall’esito dei referendum.
Naturalmente lo strumento referendario in sé è grezzo, adatto a scelte radicali che si concludono con un sì o con un no. Tuttavia il referendum abrogativo rappresenta uno strumento importante ed è l’ultima iniziativa possibile di fronte a provvedimenti imposti. Tutt’altro che disprezzabile perché evoca partecipazione, può mobilitare energie importanti, può unire forze altrimenti divise da espe¬rienze e percorsi diversi, perfino contrapposte, può creare raccordi tra forze che probabilmente non saranno mai alleate, ma possono convergere su un singolo obiettivo.
Una campagna referendaria può essere gestita solo con grande apertura e disponibilità a rispettare la convergenza di diversità politiche e culturali. Naturalmente questo schieramento non reggerebbe se non ci fosse un’ipotesi politica di minima che sorregge la campagna referendaria. In altre parole, pur con tutti i difetti di approssimazione, un referendum pone problemi politici di rilievo, tanto più in quando ha una forza emblematica nei suoi obiettivi ed è in grado di mobilitare energie intellettuali e coscienze.
È legittimo e desiderabile poter ragionare su una prospettiva politica più organica, compatta, meno grezza di un quesito referendario. In altri tempi si sarebbe parlato dell’esigenza di costruire una prospettiva politica. In questa fase non si può trascurare che da almeno dieci anni subiamo gli effetti di un meccanismo elettorale che ha gravemente compromesso la capacità di ascolto di chi ha la guida politica del paese, perché la possibilità di fare approvare le misure del governo con una maggioranza costituita grazie al premio di maggioranza ha sostanzialmente inaridito le capacità di ascolto delle istanze del paese e il confronto con altri punti di vista sociali e politici.
Il “porcellum” è stato una sorta di “droga” politico-istituzionale i cui effetti – nella foga di garantire una maggioranza schiacciante al vincitore – hanno intaccato in profondità il ruolo del parlamento come rappresentanza di diversità politiche e culturali (il potere appartiene al popolo che lo esercita attraverso la sua rappresentanza) e questo ha relegato il parlamento a un ruolo di comparsa, di mera ratifica di quanto decide il governo.
Il decreto legge è diventato lo strumento prevalente per forzare l’approvazione degli atti del governo. Il voto di fiducia – ripetuto a valanga – è diventato la modalità per imporre la volontà del governo sul parlamento. È evidente che una maggioranza politica cerca di governare, ma se ha numeri alterati da un sistema elettorale ipermaggioritario tende a decidere da sola, senza l’ascolto dell’opposizione, se non quella di comodo, e ignorando la società organizzata.
Referendum e opposizione sociale
Da tempo assistiamo a crescenti tentativi di emarginare i soggetti sociali che in certe fasi storiche hanno svolto un ruolo decisivo per garantire la democrazia. Probabilmente in passato i patti sociali hanno debordato, sono diventati uno strumento che nel tempo ha ingabbiato i sindacati in un ruolo improprio e certamente non popolare, fino a farli percepire come parte del sistema. Tuttavia rele¬gare ai margini i sindacati è la peggiore risposta possibile al problema e indebolire la loro capacità di rappresentanza dei lavoratori è un’azione miope e di corto respiro. Del resto tagliare i diritti di chi lavora è un modo per spingere il nostro paese verso i gradini più bassi della qualità dello sviluppo e della vita sociale. Concepire la concorrenza come azione per compri¬mere essenzialmente i diritti e il ruolo del lavoro è un’azione fortemente conservatrice.
Renzi arriva nella parte finale di questa tendenza, che ha origini più lontane nel tempo, e, a differenza di altri, la porta alle estreme conseguenze politiche senza alcun riguardo per la storica distinzione tra destra e sinistra, che non a caso viene definita superata.
Dobbiamo chiederci perché, dopo l’esperienza non fortunata del referendum sulle trivelle, continuano a esserci raccolte di firme per arrivare a referendum abrogativi su materie fondamentali delle politiche del governo Renzi. Pensiamo al lavoro, alla scuola, ecc. La scuola ha avuto una mobilitazione di grande peso contro la legge del governo, ma il parlamento l’ha approvata comunque, chiudendo la porta in faccia agli insegnanti, agli studenti, alle famiglie. Per questo resta solo il referendum per tentare di rimettere in discussione le decisioni prese.
Queste leggi sono autentici pilastri delle scelte di cui il governo mena vanto. Se ci sono iniziative referendarie contro queste scelte vuol dire che nel paese c’è un’opposizione sociale che cerca le modalità per esprimersi e ha individuato nei referendum una possibile risposta. Nella consultazione della Cgil i più decisi a favore del¬la raccolta di firme a sostegno della legge sui diritti e per i referendum abrogativi sono stati i lavoratori. L’opposizione politica non è riuscita a contrastare l’approvazione di questi provvedimenti, i rapporti di forza pesano. Quindi non resta altro modo per opporsi se non promuovere referendum abrogativi su queste materie, perché gli altri punti di vista sono stati volutamente ignorati per dimostrare un decisionismo degno di altri tempi. Senza trascurare che queste scelte del governo fanno parte della panoplia che costituisce il biglietto da visita della presentazione dell’azione del governo all’estero, su cui si cerca di costruire le condizioni di un accredito (subalterno) verso le forze egemoni in Europa. Ad esempio queste scelte sono state rivendute più volte come “le riforme” e ormai sono gemme incastonate nella corona del governo Renzi.
La prospettiva del presidenzialismo
In realtà questi e altri provvedimenti sono solo l’anticipo di ciò che il governo farà se avrà la possibilità di modificare strutturalmente il sistema elettorale e la Costituzione. Sistema elettorale ipermaggioritario e modifiche costituzionali costituiscono infatti un tutto unico, non bisogna mai stancarsi di ripeterlo. Il nuovo parlamento grazie alla legge elettorale (“Italicum”), che perpetuerebbe i numeri e i disastri del “porcellum”, consentirebbe alla maggioranza di governare senza temere l’opposizione politica, che può, per così dire, riposarsi in attesa del nuovo turno elettorale, né tanto meno quella sociale.
Il sistema istituzionale italiano, così modificato, porterebbe a un cambiamento di fondo nell’as¬setto democratico del nostro paese, che passerebbe dall’essere, come è oggi, una Repubblica parlamenta¬re a un altro sistema istituzionale, per ora esplicitato solo in parte. Il presidenzalismo è una svolta com¬plicata anche per il Pd renziano, ma è chiaro che quella è la prospettiva.
Per ora l’iniziativa è concentrata sulle tappe intermedie per avvicinarsi il più possibile al sindaco d’Italia o al premierato forte. Questo perché l’assetto istituzionale è ancora in parte temperato da altre istituzioni di garanzia della Repubblica, destinate tuttavia a subire nel tempo l’influenza determinante del governo e della maggioranza. Se passerà la modifica della Costituzione, il futuro presidente della Repubblica potrebbe essere eletto, a un certo punto, a maggioranza semplice dei 730 votanti, qualunque sia la presenza in aula perché non è previsto alcun quorum.
La composizione della Corte costituzionale verrebbe fortemente influenzata dalla maggioranza e lo stesso Csm subirebbe l’influenza della maggioranza. L’equilibrio tra i poteri verrebbe così alterato.
Sulle altre modifiche della Costituzione, se si vuole ridurre all’osso, il Senato è peggio che abolito. Almeno l’abolizione sarebbe stata una scelta chiara. Il Senato viene ridotto a un organo che ha più poteri teorici di quanti potrà esercitarne e se lo facesse veramente l’approvazione delle leggi diventerebbe un ginepraio. Il Senato avrà componenti non eletti dai cittadini, che svolgeranno in pratica i loro compiti nel tempo libero dagli altri incarichi per i quali sono stati eletti, pensiamo ai sindaci. Come ha documentato l’ufficio studi del Senato, le leggi in media hanno avuto tempi di approvazione inferiori a due mesi e con una modalità lineare: lo stesso testo approvato da Camera e Senato. In futuro le modalità di approvazione legislativa diventerebbero diversificate a seconda della materia e potrebbero perfino avere tempi più lunghi di quelli attuali. Il bicameralismo non sarà più paritario, ma certamente sarà squilibrato e complicato. Non si tratta di difendere a ogni costo l’attuale bicameralismo paritario, ma è legittimo pretendere che a un equilibrio costi¬tuzionale se ne sostituisca un altro più efficiente e in grado di offrire garanzie adeguate.
Il problema dell’equilibrio istituzionale viene oggi sostituito dalla costruzione di un sistema di consenso al “capo”. Del resto auto¬revoli costituzionalisti, pur non contrari in principio alle modifiche, hanno duramente criticato le contraddizioni e i vuoti di queste modifiche costituzionali, che se raccordata alla nuova legge elettorale, indicano chiaramente il ribaltamento dei ruoli.
Al centro non ci sarà più il parlamento ma il governo. La Camera dei deputati, che dà e toglie la fiducia, quindi con un ruolo teoricamente decisivo, in realtà è subalterna al governo per tre ragioni di fondo.
Il capo del partito che vince decide in pratica gli eletti, che per almeno i due terzi saranno di fatto designati e quindi gli debbono l’elezione.
Il maggioritario, molto simile a quello del “porcellum”, garantisce a chi vince il 55% dei seggi e quindi la ratifica dei provvedimenti del governo è garantita.
Le nuove regole del lavoro parlamentare danno al governo non solo la conferma della possibilità di un uso smodato dei decreti legge e dei voti di fiducia, ma an¬che di determinare il calendario dei lavori parlamentari.
Infatti il governo può indicare le priorità legislative che debbono essere approvate in tempi certi, 75 giorni. Perfino le garanzie per le minoranze parlamentari saranno approvate dalla maggioranza.
L’unica camera pienamente decidente sarà in realtà subalterna al governo e avrà come compito principale di ratificarne le scelte, anche quelle più difficili come le decisioni su pace o guerra. Le Regioni vedranno falcidiati i loro poteri. Il referendum sulle trivelle è stato una sorta di prova generale del tentativo delle Regioni di avere voce in capitolo sui problemi che riguardano il loro territorio e, visto il risultato, in futuro sono prevedibili situazioni ancora peggiori, con il governo che dichiarerà di interesse nazionale tutto quanto vorrà realizzare, o consentire ai privati, poiché si riserva la decisione finale.
Le provincie vengono abolite come rango costituzionale e resteranno con rappresentanze elette in secondo grado, tanto è vero che già oggi in molte provincie non ci sono liste contrapposte, ma listoni che eleggono in un colpo solo maggioranza e minoranza, in sostanza le vere elezioni sono abolite. C’è un evidente disegno di centralizzazione che sottrae poteri alle Regioni, liquidando le provincie, imponendo ai comuni equilibri finanziari senza autonomia, con la facoltà del governo di decidere in ultima istanza sulle scelte importanti.
Il governo sta largamente e spregiudicatamente approfittando di questo parlamento ricattabile e non legittimato a operazioni di riforme istituzionali, in particolare di questa ampiezza. In questo modo vengono imposte modifiche che si completano con la legge elettorale ipermaggioritaria che ha l’obiettivo di aggirare la sentenza della Corte sul “porcellum”.
È curiosa la tesi che modifiche alla Costituzione e legge elettorale andrebbero valutate separatamente. La proposta di legge elettorale all’origine regolava l’elezione del Senato, poi questa parte è stata cancellata in vista dell’abolizione dell’elezione dei senatori. Più legati di così questi due provvedimenti non potrebbero essere.
È chiaro che il sistema di decisione inciderà pesantemente anche sulla prima parte della Costituzione e sui diritti. Chi si illude che sia possibile isolare le due parti dimentica che l’attuazione della prima parte della Costituzione dipende da chi e come ne decide l’applicazione e che per di più la legge elettorale approvata mette nelle mani del governo e della maggioranza la possibilità di ulteriori modifiche della Costituzione.
Questo mentre autorevoli banche d’affari internazionali chiedono esplicitamente di supe¬rare le Costituzioni europee troppo legate ai risultati della seconda guerra mondiale per andare verso modalità di decisione più simili a quelle del potere finanziario, dei consigli di amministrazione.
Una battaglia che va fatta
Interrogarsi sui risultati di questa lunga battaglia referendaria su questioni fondamentali di democrazia, che inizierà con il referendum costituzionale a ottobre e proseguirà con i referendum abrogativi nel 2017, è abbastanza inutile. La certezza della vittoria non esiste, si può solo tentare di realizzare l’obiettivo.
È una battaglia che va fatta ad ogni costo. Perfino a costo di essere accusati di passatismo.
Parte dell’intellighenzia di sinistra è frastornata e non ha contrastato questa deriva, perché si interroga su cosa accadrebbe se questi provvedimenti venissero bocciati, soprattutto dopo la minaccia di far saltare il banco di Renzi. C’è chi si interroga su quali possano essere le proposte positive, alternative a quelle del governo. Tutte preoccupazioni da tenere in conto. Senza sottovalutare neppure il riflesso condizionato, che viene dal passato, che giustifica anche l’ingiustificabile in nome di un fantomatico principio superiore. Non pochi drammi storici sono nati proprio così.
Insomma il ruolo del Pd come partito stabilizzatore dell’assetto di potere e protagonista di una tendenziale torsione autoritaria crea forti imbarazzi al fronte di quanti ritengono queste modifiche inaccettabili e pericolose o almeno dubitano della loro validità.
Questo pone l’enorme problema di aiutare la nascita di posizioni fondate anzitutto sull’autonomia politica ed intellettuale fondate su un giudizio di merito sui provvedimenti, rifiutando il giustificazionismo e rifuggendo da una scelta tutta concentrata sul pro o contro Renzi. Senza questa battaglia di principio su Costituzione e legge elettorale lo spazio democratico si impoverirà e in futuro tutto diventerà più difficile.
I referendum hanno un carattere certamente difensivo, tuttavia possono aprire degli spazi di mobilitazione e di crescita delle coscienze collettive per costruire proposte politiche alternative. Altrimenti si creerà un regime che du¬rerà nel tempo, con regolazioni di conti al suo interno, ma con una sostanziale imposizione autoritaria al corpo sociale. Non va infatti sottovalutato che l’Italia così non esce dalla crisi e chi dice no a innovazioni nel recupero di risorse dai ceti abbienti per finanziare la ripresa e gli interventi a favore delle aree sociali più deboli inevitabilmente si prepara a manomettere le conquiste sociali e quindi cambierà in profondità la società e i rapporti di forza al suo interno. Di certo non ne guadagnerà un progetto fondato su solidarietà ed equità.
L’accentramento decisionale, invocato da poteri forti interni e internazionali, serve per affermare con chiarezza la gerarchia delle classi sociali, con un vertice che pur minoranza nel paese potrà imporre le sue scelte, obbligandolo a cambiamenti strutturali. Non è che tutto finora sia stato rose e fiori, al contrario, ma almeno l’assetto istituzionale disegnato dalla Costituzione ha aperto spazi alle classi subalterne per diventare classe dirigente o almeno affermare conquiste parziali, obbligare a compromessi avanzati. In futuro l’ascensore sociale verrebbe ristretto negli ambiti della cooptazione nelle classi dominanti e nelle loro regole. Gli altri dovranno accontentarsi di votare ogni cinque anni e quindi di seguire il destino triste di altre democrazie che vedono le loro leadership votate da percentuali sempre minori di cittadini. La percentuale dei votanti in Emilia Romagna alle ultime regionali, 37%, è un urlo di disperazione democratica, che non a caso si cerca di ignorare.
La battaglia referendaria, sui temi istituzionali e sociali, può essere un buon antidoto alla delusione e un importante ricostituente per la partecipazione democratica dei cittadini, se poi vincesse il No alle modifiche della Costituzione si aprirebbe una situazione nuova di grande interesse. Vedremo.