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Sergio Garavini
.:: Alfiero Grandi Pubblicato in data:  14/06/2014  15:32:15, in Politica, letto 1624 volte
Sergio Garavini è stato un dirigente di primo piano della Cgil e del Pci. Dopo la fine del Pci fu il primo segretario di Rifondazione Comunista. Ediesse ha il merito di avere dedicato a Garavini un volume che ospita insieme ad alcuni suoi scritti due ricerche molto interessanti perché lo collocano nel contesto sindacale e politico dell’epoca e contribuiscono ad approfondire la conoscenza di tutti noi su fasi decisive della storia del movimento operaio del nostro paese. La prima importante tappa del suo percorso sindacale e politico fu di contribuire, con capacità ed impegno, alla costruzione della risposta alla sconfitta del 1955 in occasione delle elezioni delle commissioni interne, in particolare alla Fiat. La ricostruzione post bellica era arrivata ad un punto di svolta. Negli imprenditori, a partire dalla Fiat, era cresciuto il desiderio di liberarsi dai vincoli e dai condizionamenti dei sindacati e dei partiti che avevano contribuito alla vittoria sul fascismo, in particolare della Cgil e del Pci. La riorganizzazione capitalistica post bellica voleva mano libera, senza condizionamenti. Gli imprenditori che volevano mano libera sapevano di avere l’appoggio degli Usa, in quella fase particolarmente importante nel nostro paese, e giocarono con durezza la carta della discriminazione politica e dei licenziamenti. Garavini ricorda in uno scritto, con ironia autocritica, che nella fase di ricostruzione della Cgil nei luoghi di lavoro, anni dopo la sconfitta, in occasione della proclamazione di uno dei primi scioperi alla Fiat ci furono più votanti a favore della sua effettuazione che partecipanti effettivi allo sciopero. E’ la conferma che la ripresa fu dura, con alti e bassi, e richiese tempo, spesso costruita fuori dal luogo di lavoro, ma sempre in stretto rapporto con la condizione di lavoro, con la sua comprensione. Era la fase dei grandi insediamenti industriali, sideralmente diversa da quella attuale. Oggi c’è il sostanziale tramonto delle grandi fabbriche nella direzione di una realtà produttiva diffusa, anche fuori dai confini nazionali. Garavini fu un protagonista decisivo della svolta nella Cgil e nel Pci dopo la sconfitta, attraverso la riscoperta della fabbrica, della condizione reale di lavoro, delle crescenti contraddizioni sociali che la ripresa economica metteva in luce. Proprio la necessità di conoscere l’evolversi della situazione reale della condizione operaia portò ad usare le inchieste sulla condizione di lavoro assieme ai colloqui diretti. Con l’obiettivo di impostare un’innovazione rivendicativa fondata sulla concreta condizione di lavoro. La formula all’epoca era il ritorno alla fabbrica. Oggi questa parola d’ordine non sarebbe sufficiente perché la fabbrica sempre più è solo una parte del processo produttivo. Nell’esperienza di Garavini è evidente l’impegno forte di chi si sente dalla parte di chi lavora e cerca di aiutarne il riscatto dalla subalternità e dallo sfruttamento attraverso la guida dell’organizzazione sindacale. In larga misura è il marchio di una generazione di sindacalisti che cercarono di reagire alla sconfitta, senza edulcorarla, ma cercando con coraggio di comprenderne a fondo le ragioni. Proprio questo punto di vista, esplicitamente dalla parte dei lavoratori, qualche anno dopo Enrico Berlinguer difenderà i “torinesi” da una diffusa critica presente nel gruppo dirigente del Pci. Questa esperienza che caratterizzò fortemente il ruolo di Sergio Garavini parla anche oggi al sindacato e alla sinistra politica perché è del tutto aperto ed irrisolto il “ritorno” ai luoghi di lavoro, che nelle attuali condizioni non può più contare sulla grande azienda e sulla centralità dell’operaio massa, ma si deve misurare con la precarietà dilagante, con la frantumazione dei luoghi di lavoro e delle modalità di prestazione, disperse in una panoplia incredibile di forme contrattuali, con la contrapposizione tra quelli che vengono definiti i garantiti e gli altri che non hanno le benchè minime tutele. Riunificare oggi il mondo del lavoro è questione molto diversa dalla fase in cui si impegnò Sergio Garavini ma del tutto simile è la direzione della ricerca se i gruppi dirigenti sindacali e politici vogliono ricostruire questo rapporto. L’Ars ha provato a dare un suo contributo in questa direzione con una riflessione che ha portato ad un seminario il 21 ottobre 2013 con al centro la domanda: la riunificazione del mondo del lavoro è possibile oggi ? I lavori del seminario sono oggi raccolti in un volume dell’Ediesse e chi è interessato può rendersi conto direttamente della riflessione in corso. La conoscenza e la ricostruzione della condizione di chi lavora come base necessaria per le iniziative è un problema cruciale per la sinistra politica e sindacale, perchè riunificare chi presta la sua opera in modo subalterno in un sistema produttivo non più centrato sulle grandi concentrazioni produttive ma su un sistema frantumato di rapporti di lavoro, di conferimento da diversi punti di parti della produzione, di decentramento dentro e fuori i confini nazionali, di assetti societari complessi e spesso sfuggenti, comporta la ricostruzione faticosa di un’unità che non è immediata e ha bisogno di un lavoro molto impegnativo, che non può che essere basato su una piattaforma politica e sindacale unificante. Il sindacato di programma su cui si è impegnato fortemente Bruno Trentin cercava di muoversi in questa direzione. Garavini in anni più vicini a noi, riprendendo in termini moderni la sua esperienza degli anni 50, ha contribuito a ricostruire una visione unitaria del mondo del lavoro. Ad esempio, affrontò con determinazione, dopo la sconfitta alla Fiat nel 1980, la questione dei quadri e dei tecnici. Sostenne con forza la tesi che i lavoratori hanno il diritto di decidere sulle scelte che li riguardano, ma anche il dovere di accettare la rappresentanza di categorie che altrimenti finirebbero con il diventare terreno di conquista dei padroni (allora questi termini erano ancora in uso) e quindi il diritto di decidere a maggioranza doveva essere temperato (politicamente) dall’ascolto delle esigenze di queste categorie, le cui condizioni non sempre possono coincidere con quelle degli operai e degli impiegati, come dimostra la discussione sul diritto al brevetto. Da questa riflessione derivarono anche regole di rappresentanza che prevedevano forme riservate a quadri e tecnici. Questo conferma una caratteristica essenziale di Garavini: i suoi principi politici ed ideali erano fermi ma si accompagnavano a una grande duttilità e ad un notevole realismo politico. Mi è capitato di assistere più volte alla proposta di piattaforme politiche forti, coraggiose ma costruite senza mai dimenticare che l’obiettivo non era quello di produrre buoni documenti ma di realizzare degli accordi nelle condizioni date e che per farlo occorreva avere ben chiaro le condizioni per la conclusione degli accordi. Garavini cercò di spingere, in particolare dopo la sconfitta alla Fiat del 1980, ad un’analisi più approfondita e moderna sulle condizioni di lavoro e sul funzionamento del capitalismo. In particolare sostenne che proprio la complessità e la modernità dei sistemi produttivi richiedeva un lavoro più istruito, professionalizzato e quindi chiamato ad un contributo consapevole, spesso di controllo (altra cosa dalla flessibilità subalterna), in questo modo si era creato lo spazio per rivendicare un ruolo non subalterno dei lavoratori nell’organizzazione del lavoro. Lavoratori che dovevano accettare la sfida e impostare in modo nuovo la loro contrattazione. Per Garavini era importante non condannarsi a gloriose sconfitte. Capiva bene le motivazioni che portavano a reazioni forti, ma pensava che il ruolo di direzione non si esprimeva nel raccogliere tutte le sollecitazioni in modo confuso e in particolare quelle che non avevano possibilità di successo, al solo fine di ottenere un effimero consenso, ma occorreva parlare chiaro, non mortificare le spinte ma incanalarle in un alveo rivendicativo robusto, che avesse effettive possibilità di successo. In sostanza era contrario a piattaforme rivendicative che sommassero le rivendicazioni, comprese quelle contraddittorie tra loro. Probabilmente quella individuata da Garavini nell’organizzazione del lavoro che si veniva delineando era una finestra temporale che poi si è chiusa, in quanto aperta a diverse soluzioni. In sostanza questa via non fu praticata a sufficienza e non ebbe successo e quindi il capitalismo italiano fondò le sue scelte su una pressione volta alla svalorizzazione del lavoro, il decentramento a gogò e sulla delocalizzazione all’estero e quindi confinò il ruolo del lavoro, in particolare operaio, in un ruolo solo subalterno. Garavini non cessò mai di riflettere sull’evoluzione della condizione di lavoro come presupposto per impostare la contrattazione, considerata lo strumento fondamentale per affermare il punto di vista del lavoro nell’ambito produttivo. Per di più Garavini era convinto che il sindacato non poteva contare effettivamente nel paese, condizionarne le scelte politiche ed economiche senza essere forte nei luoghi di lavoro. La possibilità che il sindacato avesse un ruolo politico (politico non partitico) per Garavini si fondava sul suo reale radicamento nei luoghi di lavoro, sul suo reale potere contrattuale. La sua riflessione è di grande attualità visto che oggi siamo di fronte alla dichiarazione di morte unilaterale della concertazione da parte del governo Renzi, portando alle estreme conseguenze atteggiamenti analoghi dei governi Monti e Letta. Nessuna nostalgia per la concertazione, che ha dato non pochi guai al mondo del lavoro subordinato. Basta pensare che la discesa del reddito da lavoro in rapporto al Pil è stata favorita proprio da una concertazione che non è riuscita ad ottenere il rispetto degli impegni dei governi. Anche se non si può negare che in alcune occasioni la concertazione ha consentito al mondo del lavoro di mettere sotto controllo, almeno in parte, variabili economiche che altrimenti avrebbero pesato ancora più duramente sul lavoro. Il vero messaggio dell’attacco non è tanto la concertazione in sé, che è solo un metodo, per di più non poco controverso, quanto il tentativo di identificarne i protagonisti e in partcolare il sindacato con il vecchio, con tutto ciò che è conservatore e superato, perfino colpevole del ritardo nell’assunzione delle decisioni da parte dei governi. Fingendo di dimenticare che in realtà è proprio il sindacato ad avere chiesto a gran voce svolte economiche di rilievo, spesso senza esito. La questione centrale che pone in realtà l’attacco alla concertazione è politica e riguarda il tentativo di ridimensionare il ruolo del sindacato, di renderlo subalterno e con esso il ruolo dei lavoratori che – in questa concezione – possono solo sperare di ricevere qualche ricaduta dalle scelte del governo e delle imprese. Curioso che Poletti, oggi Ministro del lavoro, abbia archiviato con rapidità un passato in cui era centrale la richiesta (spesso il rimbrotto era ai governi) di essere ammesso al tavolo della concertazione in rappresentanza della Lega delle cooperative, fino a dare vita al coordinamento tra piccole imprese, con l’obiettivo di aiutare il riconoscimento del diritto a concertare anche delle piccole imprese. Garavini, in tempi del tutto diversi, aveva già chiaro che il sindacato avrebbe giocato un ruolo sulle scelte a condizione di essere radicato nei luoghi di lavoro e di essere quindi rappresentativo, solo così avrebbe potuto rivendicare con la forza necessaria scelte che altrimenti i governi e le imprese non avrebbero fatto. Garavini cercò di volgere in positivo anche l’attacco alla scala mobile, che iniziò negli anni 80, impostando una piattaforma complessiva che non rifiutava la discussione su un argomento delicato come questo, ritenendo che non esistessero le condizioni per un semplice rifiuto, ma collocando i comportamenti di moderazione salariale in coda a richieste molto forti di politiche industriali, fiscali, di riforma della struttura del salario. La scala mobile non era solo in coda ma la sua modifica veniva affrontata in rapporto a politiche fiscali che dovevano garantire insieme ad altri strumenti come il controllo dei prezzi la tutela del potere d’acquisto effettivo dei lavoratori. Così si faceva tesoro dell’esperienza della piattaforma dell’Eur e del suo sostanziale fallimento perché i governi continuarono a fare le loro scelte senza prendere impegni precisi, mentre la piattaforma, alla cui costruzione Garavini contribuì in modo determinante, puntava ad ottenere in premessa gli impegni altrui in modo da offrire ai lavoratori preliminarmente un quadro di garanzie adeguato prima di adottare comportamenti retributivi coerenti. Così Garavini fu uno dei protagonisti della risposta al taglio della scala mobile voluta dal governo Craxi con un atto unilaterale che divise profondamente i sindacati e la stessa Cgil. Fu tentata un’operazione tuttaltro che facile. Da un lato cercando di evitare la scissione nella Cgil e dall’altro impegnandosi fino in fondo per il referendum abrogativo quando si constatò che ormai era impossibile fare recedere il governo Craxi dalle sue scelte. La soluzione di questa contraddizione fu complicata ma riuscì. La battaglia referendaria fu condotta in forme appropriate ma senza risparmio, anche se si risolse in una sconfitta, e Garavini ne fu un protagonista. La Cgil resse all’urto e la scissione fu evitata. La ricostruzione del ruolo di Garavini nella battaglia per la scala mobile contenuta nel volume dell’Ediesse su questo punto - a mio avviso - non rende giustizia al ruolo decisivo che ebbe, perché fu in prima fila, con la consueta determinazione. Operaista ? Garavini spesso è stato dipinto così. Non trovo convincente questa definizione. Preferisco sottolineare che era attento fino all’ossessione al rapporto con i lavoratori e instancabile nell’indagare l’evoluzione delle condizioni di lavoro, preciso nella definizione delle piattaforme, lontano anni luce dall’idea di sommare alla rinfusa tutte le rivendicazioni, attentissimo alla loro selezione, capace di cogliere il momento di chiusura delle vertenze, anche quando non avevano raggiunto i risultati che meritavano. Garavini aveva ben chiaro che il sindacato non poteva solo rivendicare ma doveva avere idee chiare su come concludere le vertenze. Non a caso a lui fu affidata la relazione al direttivo della Cgil dopo la sconfitta alla Fiat del 1980, che doveva esaminare la situazione e infatti avanzò proposte per uscire dalla sconfitta, definita così, senza infingimenti. Garavini parla non a caso di lotte coraggiose ma perdenti, sottolineando che le gloriose sconfitte e i relativi errori debbono essere capiti per affrontare la risalita. Mi ha sempre colpito che Garavini, quando era segretario generale dei tessili, pur provenendo da un’esperienza come quella della Torino operaia e della Fiat in particolare si fosse rivelato capce di includere nella contrattazione della categoria che dirigeva sia i turni 6 per 6 nel tessile, per l’utilizzo degli impianti in cambio di una riduzione significativa dell’orario di lavoro, sia il ruolo sempre più diffuso del lavoro a domicilio nel settore dell’abbigliamento, che non aveva alcuna tutela nella maggior parte dei casi, almeno fino all’approvazione della legge che migliorò la situazione. Prima di Garavini le due questioni erano viste in modo separato. Il lavoro a domicilio veniva considerato un residuo di altri tempi e non ne veniva compreso il ruolo strettamente connesso con il resto dell’attività produttiva proprio nel momento dell’espansione della produzione nel settore dell’abbigliamento. Infatti era questione che veniva affrontata dalle regioni che non avevano grandi aziende come l’Emilia, ma era lontana dall’attenzione nelle zone di insediamento delle grandi aziende. Garavini impose una svolta e lavorò per connettere i diversi aspetti della condizione di lavoro, comprendendo che anche i nuclei operai dei settori produttivi avevano tutto da perdere se il lavoro a domicilio diventava una valvola di sfogo fuori controllo. Garavini era capace di analisi e di sintesi, capiva il senso profondo della linea di marcia degli avvenimenti produttivi e non solo quelli delle grandi aziende. Per questo ha ragione Ugolini, che ha curato il volume su Garavini, quando afferma che ci sono dirigenti come lui che rischiano un non meritato oblio, perché hanno tuttora molto da dire al sindacato e ai lavoratori, anche oggi. La Cgil ha avuto la fortuna di sapere contemperare personalità ed esperienze molto diverse, perfino in dissenso tra loro nel suo gruppo dirigente (all’epoca Lama, Trentin, Garavini per ricordarne solo alcuni) e questo ne ha fatto un’organizzazione aperta e capace di attrarre forze intellettuali, giovani, provenienti da altre esperienze. La visione forte e convinta di Garavini, a volte anche aspramente polemica, lasciava sempre campo alla necessità di una sintesi conclusiva nel gruppo dirigente. Ha avuto diverse definizioni, alcune elogiative altre no, che non fanno giustizia della complessità della sua personalità. Nel volume ne viene ricordata una che trovo vicina alla realtà: autonomo e fedele, sia nel Pci che nel sindacato. Per questo non sono del tutto convinto del titolo che è stato dato al volume dedicato a Garavini, che è: sindacalista politico. Mi sembra una definizione generica per Garavini, quasi pudica. Anzitutto perché tutti i sindacalisti fanno politica, più o meno consapevolmente. Penso a Trentin, un altro grande dirigente della Cgil e del Pci, anche lui potrebbe essere definito genericamente un sindacalista-politico, eppure così non si coglierebbe l’originalità della sua personalità. Ricordo il seminario (1970) a Frattocchie della direzione del Pci (partecipavo in sostituzione di Vincenzo Galetti) e della componente comunista (all’epoca esisteva ancora) del direttivo della Cgil. Garavini e Trentin si impegnarono a fondo, insieme, per convincere tutti i presenti, non pochi dei quali perplessi o contrari, della necessità di scegliere il ruolo innovatore dei delegati eletti unitariamente da tutti i lavoratori, battendosi per affermare una svolta profonda rispetto alla mera conservazione delle commissioni interne e dei rappresentanti di organizzazione. Per questo ritengo più rispondente alla figura di Garavini una definizione meno generica, meno pudica verso una personalità con contorni netti e definiti, un protagonista a tutto tondo. Garavini era un sindacalista della Cgil ma era nello stesso tempo un dirigente del Pci e aveva un legame profondo con il suo partito, senza sudditanza. Era un dirigente scomodo, come quando fu tra i pochi nel comitato centrale del Pci a pronunciarsi contro la radiazione del gruppo de Il Manifesto, sempre esprimendo la sua posizione diversa alla luce del sole, senza infingimenti. Per questo si impegnò a nome della Cgil anche quando le sue posizioni erano solo una parte della discussione. Non rifuggiva dalle responsabilità complessive, al contrario se le assumeva anche quando erano scomode, perché si sentiva profondamente parte del gruppo dirigente. Anche questo aspetto della personalità e della militanza di Garavini parla alla Cgil oggi. Cgil che ha affrontato il recente congresso con una divisione profonda sull’accordo del 10 gennaio 2014 su rappresentanza e rappresentatività, che ha modificato in modo disuctibile il positivo accordo del maggio 2013. Le posizioni sono note: c’è un dissenso forte tra la Fiom e la Cgil. In sé non è una novità, ma il congresso si è chiuso con le stesse posizioni di ingresso e questo non è positivo. Quando si pose il problema di sostituire Lama, che aveva deciso di lasciare il ruolo di segretario generale, escludendo dalla successione quelli che definì fratelli non eredi, fu chiaro a Garavini che la prospettiva in Cgil era ormai chiusa per lui, che pure aveva svolto un ruolo decisivo nell’organizzazione. Dopo l’uscita di Lama dalla Cgil accettò la candidatura al senato propostagli dal Pci. Dopo la caduta del muro di Berlino, da parlamentare oltre che da dirigente, decise di battersi contro lo scioglimento del Pci e di non entrare nel Pds, contribuendo a costruire Rifondazione Comunista di cui fu il primo segretario. Quando questa esperienza si concluse per lui, non senza amarezza, continuò a fare politica attraverso un’associazione che confluì nell’esperienza dell’Ars di cui Garavini è stato un fondatore. Alfiero Grandi