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In ogni fase ci sono episodi emblematici e le vicissitudini della Tobin tax lo sono
.:: Alfiero Grandi Pubblicato in data:  08/01/2011  20:37:55, in Tobin tax, letto 1861 volte

- Pubblicato da Cometa il  5/1/11

Si tratta di una proposta dell’economista Tobin, rilanciata meritoriamente in Italia da Attac e dal movimento e sostenuta anche da un ampio schieramento parlamentare. La proposta di legge per la Tobin riuscì pienamente a superare lo sbarramento delle firme per una legge di inizativa popolare, firmata da 100 deputati e fu discussa nella legislatura 2001-2006. La Commissione Finanze della Camera riuscì ad approvare un testo di legge per l’aula malgrado la maggioranza di destra fosse contraria nel merito. Tremonti dedicò addirittura le prime pagine di una legge finanziaria per tentare di demolire la Tobin tax.
La Tobin entrò nel programma del 2° Governo Prodi, ma purtroppo la sua attuazione non fu realizzata nei 2 anni di vita. Tra proponenti e sostenitori se ne sono occupati in tanti. Oggi che la disatrosa crisi finanziaria ha costretto a discutere di forme di regolazione dei mercati finanziari e che di Tobin tax si è cominciato a parlare nelle sedi internazionali (dal banchiere che presiedeva il corrispettivo inglese della Consob a Sarkozy), a sinistra è calato per lungo tempo un silenzio assordante sulla proposta. Ora l’Unità ha rilanciato meritoriamente la proposta e questo potrebbe consentire di riprendere a parlarne.
La Tobin tax veniva rivendicata quando i contrari erano in maggioranza, possibile che ora che si sono aperti importanti spazi di interesse chi l’ha proposta se ne sta zitto, o quasi ?
Questo fa parte del ritardo con cui viene affrontata la complessa ma decisiva questione posta dalla crisi finanziaria e dalle sue conseguenze, pena restare in attesa della prossima bolla di crisi.
E’ in questo quadro che entra la Tobin tax, che è uno degli strumenti possibili di intervento sui mercati finanziari.
La crisi finanziaria internazionale, originata dalla crisi dei mutui subprime americani, ha provocato effetti a catena, mettendo a nudo le contraddizioni e le storture del sistema finanziario internazionale, che sono ben maggiori dei mutui sotto accusa. In campo finanziario la globalizzazione è reale perché i capitali si muovono da tempo in grande libertà e decidono le fortune o la caduta dei sistemi economici nazionali e lo fanno in assenza, o quasi, di regole.
Anzi, prevale tuttora una concorrenza tra aree del mondo per il trattamento più favorevole riservato ai movimenti dei capitali.
La forbice crescente tra i redditi e l’impoverimento relativo del ceto medio lavorativo hanno messo una parte rilevante dei cittadini - americani e non solo - nell’impossibilità di consumare come prima e a questo è stata data la risposta del credito facile, oltre la possibilità di effettiva restituzione.
I consumi hanno retto solo a credito, altrimenti la compressione dei redditi più bassi e da lavoro avrebbe provocato stagnazione e caduta dei consumi.
L’attività finanziaria è cresciuta oltre i livelli immaginabili. C’è chi ha calcolato che ben oltre il 90 % delle attività finanziarie non hanno alcun rapporto con le attività reali della produzione, dei servizi, delle attività materiali o immateriali.
Quindi la questione va molto oltre i mutui subprime. I capitali che si muovono sono enormi, molte volte il PIL mondiale annuo.
La crisi finanziaria ha aperto una voragine di dimensioni tali da intaccare una fetta importante del PIL mondiale.
Nel tempo l’attività finanziaria è diventata ipertrofica, tale da consentire di sognare e perfino di realizzare fortune personali enormi, in poco tempo. Anche le banche non si sono sottratte a questo gioco infernale, tanto più che buona parte delle loro entrate dipendono dalle commissioni sulle transazioni.
Questa ipertrofia finanziaria ha favorito lo spiazzamento delle attività produttive e reali, ha relegato il lavoro nel punto più basso della scala dei valori sociali.
Se l’attività finanziaria è cresciuta, parafrasando Sraffa, producendo denaro attraverso denaro, gli effetti nefasti sono stati molto concreti e reali. A partire dallo spiazzamento degli investimenti in attività reali, perché il guadagno era più facile nella finanza, per finire all’appropriazione di quote crescenti del Pil da redistribuire a questo nuovo ceto degli affari, mentre il lavoro dipendente ne perdeva quote crescenti. Del resto basta vedere la crescita delle rendite finanziarie, in Italia tuttora tassate vergognosamente al 12,5 % cioè molto sotto gli altri redditi.
L’altra faccia è che anche le risorse reali e il risparmio dei cittadini sono stati drenati verso le attività finanziarie, con risultati evidenti di ridislocazione sociale delle ricchezze, basta pensare alla quantità impressionante di denaro perso dagli investitori, attratti dal messaggio di facili e rapidi guadagni.
A questo va aggiunto che per evitare il crollo del sistema creditizio gli Stati nazionali si sono svenati, spendendo miliardi di euro e facendo enormi debiti che per di più hanno offerto il fianco all’attacco della speculazione finanziaria. Grecia insegna. Si potrebbe dire che all’improvviso lo Stato, dato frettolosamente per morto, è stato in grado di svolgere un’azione abbastanza efficace di intervento sulle banche in difficoltà, quanto costoso e scaricato su tutta la collettività. Oggi il rientro da questo enorme debito avviene a spese dello stato sociale.
La beffa è quindi doppia: prima la crisi finanziaria ha trascinato l’economia nella recessione, poi il risanamento dei conti pubblici viene scaricato sugli stessi che ne hanno già pagato le conseguenze in termini di disoccupazione, caduta dei redditi, ecc.
La cosa incredibile è che proprio l’intervento finanziario degli Stati ha creato le condizioni per gli attacchi contro di loro da parte della stessa finanza speculativa che nel frattempo, visto che non è successo quasi nulla sul piano delle regole, ha ripreso fiato e aggressività.
Nei giorni cruciali della crisi finanziaria c’è stata una fase in cui le urla contro i nuovi untori del mondo finanziario si levavano altissime, minacciando sfracelli. Governi, studiosi, cittadini. Tutti additavano i responsabili dell’irresponsabilità finanziaria. Tuttavia, passata la fase più acuta e incerta, gli ambienti finanziari hanno capito rapidamente che non sarebbe accaduto nulla di irreparabile, che il passare del tempo consentiva loro di riprendere fiato e di tornare alle vecchie abitudini.
Goldman Sachs, ad esempio, dopo la prima fase di incertezza, ha guidato rapidamente l’offensiva della finanza speculativa puntando sull’aumento del prezzo del petrolio, cosa che non aveva alcuna giustificazione economica visto che la domanda mondiale era in calo a causa della crisi produttiva seguita a quella finanziaria.
Buffet, finanziere e speculatore, ha definito le attività finanziarie di questo periodo “armi finanziarie di distruzione di massa”. La presenza nel board delle società di rating di coloro che avrebbero dovuto essere controllati e giudicati, al fine di orientare il mercato finanziario, ha fatto il resto. Tutto ha teso a tornare come prima della crisi. Del resto è il riflesso condizionato più naturale, se nulla o quasi viene cambiato nelle regole, tutto tende a tornare come prima.
Negli Stati Uniti sono state adottate alcune misure interessanti per mettere sotto controllo i mercati finanziari. Alcune misure sono significative, ad esempio hanno dato alla Federal Reserve maggiori poteri, è stata costituita una nuova Autorità a difesa dei rispamiatori, è stato messo il limite del 3 % alla possibilità delle banche di speculare con i soldi di tutti. Per inciso è nota l’abitudine delle banche di speculare con i soldi dei depositanti, salvo tenersi i profitti in caso di esito positivo o di scaricare sui risparmiatori i costi in caso di esito negativo, oppure, peggio ancora, di mettere a rischio la solvibilità della Banca e quindi ottenere interventi pubblici di sostegno per evitare l’effetto domino. Il limite maggiore delle misure americane è di avere un’ottica di intervento che arriva ai confini dell’impero nazionale. Di più: cercando di evitare che altre zone come l’Europa mettessero vincoli ai movimenti di capitali e all’azione dei fondi.
Si potrebbe dire che gli USA hanno cercato di fare pulizia in casa propria ma non hanno promosso la stessa iniziativa a livello internazionale. Anzi hanno cercato di scoraggiare iniziative di controllo sui fondi americani che operano all’estero. In altre fasi invece gli USA si sono mossi su un orizzonte internazionale, ad esempio hanno promosso il WTO, anche se in tuttaltra direzione ovviamente. Ora invece sono restii a trovare soluzioni nelle sedi internazionali, preferendo continuare a lucrare sul ruolo del dollaro come moneta di riserva mondiale e a beneficiare dell’attrazione verso i capitali esteri e dei proventi delle attività finanziarie americane all’estero.
Si potrebbe dire che si è cercato di scaricare la parte negativa dell’attività finanziaria americana sul resto del mondo.
Eppure per la prima volta la Cina ha proposto di trovare una nuova moneta per regolare i rapporti internazionali. Potrebbe essere il primo passo verso un diverso sistema finanziario internazionale, in cui il dollaro non sia più l’unico centro e quindi non più in grado di scaricare sul resto del mondo le contraddizioni americane. Del resto il contenzioso Cino-americano sulla svalutazione dello yuan ne è la conferma. Questa proposta cinese è caduta nel vuoto ed è un’occasione perduta perché continuerà il tira e molla basato soltanto sui rapporti di forza, non a caso si riparla di svalutazione del dollaro.
Gli inglesi sono passati dall’essere protagonisti dell’apertura incondizionata dei mercati finanziari all’acquisto di pacchetti azionari delle banche in crisi. Oggi Cameron si limita a fare il liquidatore della situazione con tagli al bilancio pubblico e con l’unico obiettivo di mantenere in piedi la finanza inglese.
In Europa molti paesi, sia pure in modo non sempre coerente, hanno posto invece il problema di adottare nuove regole di controllo sui mercati finanziari internazionali. Il Governo italiano, con il Ministro Tremonti, è schierato sulla linea più conservatrice, facendo affermazioni di cui oggi dovrebbe pentirsi pubblicamente come quella che l’Italia sarebbe stata sui conti pubblici alla pari della Germania.
La Germania ha ragionato sulle misure da adottare e, ad esempio, ha messo limiti all’acquisto di azioni a debito cioè senza la disponibilità dei fondi necessari, che è all’origine di molte turbative.
La Francia, con il discorso di Sarkozy all’assemblea dell’ONU, ha riproposto la Tobin tax, sia pure con l’obiettivo di raccogliere fondi per fini umanitari. Del resto già Chirac si era ben guardato dal cancellare la legge sulla Tobin tax, legge fatta approvare dai socialisti.
Resta il fatto che l’Europa nel suo insieme, malgrado questi lampi fugaci, si è mossa con grande ritardo e partorendo in sostanza un topolino. C’è chi esalta la decisione di costituire tre nuove autorità europee per il controllo sul mondo finanziario. A parte che entreranno in vigore nel 2011, cioè nel quarto anno dall’inizio della crisi finanziaria e chissà quando potranno operare effettivamente, il loro ruolo è all’interno di un meccanismo estremamente rarefatto che prevede ancora un ruolo importante delle Autorità nazionali. Inoltre per qualunque iniziativa seria delle Autorità europee occorrerà il consenso delle autorità nazionali, altrimenti la procedura sarà complicatissima e di esito incerto. In ogni caso non viene affrontato il cuore del problema, così come non lo affronta Basilea 3, anche se i banchieri hanno fatto di tutto per contrastare questo nuovo accordo.
Infatti anche Basilea 3 si limita a definire criteri più prudenziali di concessione del credito da parte delle banche in rapporto al capitale proprio. Buona cosa ma insufficiente. Viene in sostanza ridotta la cosiddetta “leva” del credito, che era arrivata a livelli veramente esagerati. Queste misure sono certamente utili e nessuno può sottovalutarne la portata perché rendono le banche più solide, ma non vanno alla radice dell’azione speculativa e non sono in grado di riportarla entro limiti socialmente accettabili.
La discussione sulle banche troppo grandi per fallire rischia di essere fuori centro. Certo ci sono banche il cui fallimento farebbe tremare l’intera economia, ma il vero problema è che questi conglomerati finanziari fanno contemporaneamente troppe parti in commedia e queste attività sono in evidente conflitto di interessi.
Più che la grandezza il vero problema è che l’attività delle banche avviene in pieno conflitto di interessi tra le loro diverse attività. Questa è la ragione che ha portato le stesse banche a confezionare prodotti finanziari malati e a rifilarli direttamente ai loro clienti, oppure a dedicarsi indifferentemente al credito per le attività reali e a reggere il sacco alla speculazione finanziaria, spesso con una predilezione per la seconda.
La soluzione al problema più che la grandezza delle banche sta nel creare barriere invalicabili tra le attività e quindi nel tornare alla specializzazione. La banca generale che fa tutto è all’origine di questa situazione. La specializzazione (commerciale, affari, investimenti, ecc.) potrebbe risolvere molti problemi ed evitare di trascinare il risparmio nel baratro ed evitare di portare l’economia reale a subire i contraccolpi delle speculazioni. Da una revisione del sistema che regola l’attività delle banche potrebbe derivare come conseguenza anche una revisione della dimensione degli attuali conglomerati, ma non per mera una contrapposizione grande-piccolo. Questa riforma sarebbe molto più efficace di altre proposte.
Infatti il primo problema è di democrazia: alcuni centri finanziari nelle attuali carenze di regole possono decidere della vita e della morte di un’economia nazionale (vedi Grecia) mentre la discussione dovrebbe iniziare proprio dall’opportunità o meno di consentire che alcuni prodotti finanziari continuino ad esistere, a quali regole debbono sottostare altri prodotti, e a quali condizioni possono essere consentiti altre attività ancora. Soros ha detto: “un mercato globale ha bisogno di regole globali”. Purtroppo la libera circolazione dei capitali è avvenuta prima di definire le regole. In sostanza la democrazia attraverso le azioni politiche dovrebbe imporsi sul mondo finanziario e in questo modo difendere anche sé stessa, cioè essere in grado di governare i processi, anziché essere messa sulla graticola dalla speculazione o subirne il ricatto a crisi avvenuta.
Forse il momento più favorevole per un’azione di regolazione è passato, ma in ogni caso occorre provarci, pena il restare in attesa della prossima crisi finanziaria senza sapere che fare e nella consapevolezza che sarebbe molto difficile prevederla e ancora più difficile scongiurarne gli effetti nefasti.
Il problema del controllo del risparmio, della sua allocazione, del suo utilizzo, della priorità che occorre dare alla crescita economica e all’occupazione non sono risultati che possono venire da soli, per così dire grazie alla mano invisibile del mercato. Questo in fondo è il limite più grosso dell’elaborazione del Financial Stability Forum, che ha sostanzialmente pensato che occorre ripulire i meccanismi del mercato perché dal loro corretto funzionamento verranno le risposte automatiche alle crisi finanziarie. E’ una pura illusione che si basa su un’ideologia mercatista. Non è così, il mercato finanziario va regolato con precisione e con determinazione e questo va fatto ex ante, non dopo una nuova crisi. Occorre che vengano stabilite precise regole e chiari divieti.
Anzitutto è assurdo che ci siano attività finanziarie che sfuggono alle autorità di controllo. Gli Usa hanno cercato in ogni modo di allentare i controlli sui fondi che venivano minacciati di nuovi controlli in altre aree del mondo e purtroppo finora in Europa non è successo granchè. Non c’è alcuna ragione obiettiva perché questo controllo non ci debba essere, se non per stabilire zone franche del mercato dei capitali, una loro supremazia, mentre in realtà costituiscono la sede in cui avvengono i movimenti che altrove sarebbero vietati. Inoltre i nuovi strumenti finanziari sono all’origine degli aumenti o della caduta speculativa dei prezzi dei prodotti fondamentali dell’economia. I derivati che sono all’origine di aumenti immotivati dei prezzi, i credit default swap nati per costituire una forma di assicurazione sulle oscillazioni possibili, sono diventati strumenti per fare la guerra (finanziaria) a Stati. Quindi tutte le attività finanziarie in quanto si rivolgono ai cittadini, senza i quali non esisterebbero, o hanno conseguenze sulla loro vita debbono essere soggette ai controlli delle Autorità, a partire dalle Banche centrali. Senza eccezioni.
Le autorità debbono avere il potere di vietare prodotti finanziari pericolosi o misteriosi nella loro composizione. Gli stessi prodotti finanziari complessi che hanno tolto il sonno a molte Regioni ed Enti locali non erano altro che pacchetti finanziari che sotto l’etichetta di coprire rischi in realtà ne creavano altri 100 volte maggiori. Soros li ha definiti: “un’assicurazione sulla vita di altri riservandosi la licenza di ucciderli”.
Le Autorità debbono avere il potere di controllare tutti i prodotti finanziari, non ci possono essere zone franche e li debbono autorizzare preventivamente, vietando senza ambiguità quelli rischiosi che vivono perché offrono il miraggio di facili guadagni.
Del resto basta aprire un giornale finanziario e i fondi speculativi e le attività a rischio sono elencati in bella vista, non è quindi impossibile intervenire.
I cosiddetti paradisi fiscali sono in gran parte risibili. Anzitutto molti paradisi fiscali in realtà sono stati europei o parti di essi che per convenzione vengono ritenuti al di fuori delle normative che riguardano il resto dell’Europa e con adeguate pressioni potrebbero rapidamente sparire. Anche gli staterelli di altre aree del pianeta possono essere ricondotti a ragione, come del resto hanno fatto gli USA quando hanno ritenuto di averne bisogno dopo l’11 settembre, e lo hanno fatto senza tanti complimenti schiantando segreti fino ad allora ritenuti invincibili. Perfino il mitico segreto bancario svizzero vacilla. Perché mai grandi aziende pubbliche italiane e grandi banche hanno loro società nei paradisi fiscali ? Non ci sono ragioni economiche che non siano la possibilità di fare operazioni fuori controllo, come creare fondi neri, fare operazioni estero su estero, ecc. Tremonti ha magnificato la misura del bilancio consolidato di gruppo, sarebbe più o meno come se una banda di ladri inserisse i suoi redditi illegali nella dichiarazione dei redditi.
Il bisogno di evitare nuove crisi finanziarie, cha abbiamo visto ha un corredo di conseguenze disastrose sull’economia, sull’occupazione, sulla povertà nel mondo, ci impone di adottare nuove regole mondiali. Nell’impossibilità di rimuovere gli ostacoli attuali in settori decisivi dell’economia mondiale, si potrebbe tentare di arrivare a queste regole adottandole per adesioni successive, come è stato fatto per il trattato di Kyoto.
La cosa migliore sarebbe realizzare l’utopia di un’ONU dell’economia, tuttavia vediamo che l’ONU fatica già a svolgere i suoi compiti e i colpi di maglio di Bush hanno lasciato il segno. Purtroppo anche Obama non ha su questo piano la stessa carica riformatrice, foss’anche utopica, che ha avuto sul piano interno. Un nuovo ordine finanziario mondiale non sembra essere nel suo orizzonte attuale. Eppure i tempi sono più che maturi per una nuova Bretton Wood, cioè per realizzare i nuovi fondamenti di un ordine finanziario mondiale, con regole, divieti, ecc.
Quindi ? Uno spazio ci sarebbe. La crisi finanziaria internazionale non ha ancora esaurito i suoi effetti. Le previsioni dciono che prima del 2015 l’occupazione non tornerà ai livelli precrisi, l’economia dei paesi cosiddetti forti segna il passo, l’occupazione è ferma e quindi le conseguenze della crisi finanziaria internazionale si stanno prolungando nel tempo. Un’azione politica intelligente potrebbe ricordarlo e porre così le basi per una discussione e per le misure da prendere. Del resto l’argomento è già all’odg, sono le misure in via di adozione che non sono sufficienti. Per di più per molto tempo ci saranno le conseguenze degli interventi di salvataggio fatti dagli Stati, che oggi portano come conseguenza a tagli pesantissimi negli interventi sociali e ad arretramenti economici pesanti. Addirittura la BCE ed altri - con un rovesciamento dei ruoli totale - dicono di temere il contagio dei disavanzi pubblici sulla finanza e sulle banche, le stesse che sono state salvate dagli Stati che si sono svenati per farlo e oggi sono sotto accusa per averlo fatto. Il mondo non è tutto come la Grecia ma le conseguenze della crisi sono comunque pesanti sulla vita delle persone.
Quindi l’idea, foss’anche l’utopia, di un nuovo ordine regolatore mondiale dei mercati finanziari, da raggiungere anche per gradi, è di grande attualità. E’ uno snodo decisivo, senza affrontare il quale il governo dei processi economici è quasi impossibile.
La sinistra dovrebbe prendere in mano seriamente la bandiera di un governo mondiale dei mercati finanziari, in nome di una democrazia che per quanto imperfetta deve consentire comunque di intervenire in nome dell’interesse collettivo sui mercati finanziari, pena conseguenze che ricadrebbero su tutti come è accaduto recentemente in modo drammatico. Certo occorre una sinistra che ragiona in termini sovranazionali, ma se non lo farà sarà costretta a difendersi in un ambito ristretto e la destra finirà con l’avere campo libero.
Il mercato non è in grado di regolarsi da solo. Può solo essere regolato dalle scelte politiche. La teoria della mano invisibile che regola non tiene. La mano che regola deve essere visibile e guidata dalle scelte politiche.
Il sistema delle Autorità di controllo deve riguardare tuttti i mercati finanziari, di qualunque tipo, debbono avere il potere di vietare, di controllare, di sanzionare e naturalmente rispondere di ciò che non hanno fatto.
Il movimento dei capitali è possibile perché a monte c’è un risparmio che consente di alimentare il meccanismo finanziario, ma occorre che il risparmio sia tutelato a partire dalla semplice verità che non ci possono essere guadagni mirabolanti senza che qualcuno paghi questo risultato, spesso lo stesso risparmiatore. Inoltre il risparmio serve in quanto alimenta investimenti, anche a lungo termine e quindi è inevitabile che ci sia un rapporto con l’azione pubblica. Regole di trasparenza e di garanzia sull’utilizzo del risparmio debbono essere tali da evitare i “lai” post disastro ma da evitarlo in radice. Il risparmio deve avere tutele simili a quelle dei depositi bancari anche quando si rivolge al mercato finanziario e ancora di più se è destinato alla previdenza, dove occorre rivedere regole che non garantiscono nemmeno il capitale investito.
L’intermediazione del risparmio e quindi la movimentazione dei capitali non può portare a una condizione anomala nella formazione dei guadagni e delle retribuzioni della nuova classe dei miracolati dal mondo finanziario. Mettere dei tetti non è affatto assurdo.
La Tobin tax in questo senso è solo un primo passo che avrebbe il merito di rendere conoscibile un mercato finanziario largamente opaco. Naturalmente occorre porsi il problema di un sistema di regole più complesso e cogente della Tobin.
Lo Stato anzitutto deve essere riscoperto come la prima sede di intervento. Si dice ma lo stato non basta, vero, ma se uno Stato sceglie la trasparenza e non di diventare un paradiso fiscale fa una scelta che è in buona parte nella sua disponibilità e che potrebbe oggi costituire un atout positivo in un mercato finanziario pieno di ombre, pericoli e anche peggio. Del resto lo Stato è quello che ha trovato i fondi per salvare le banche, è la dimensione istituzionale a cui vengono accollati gli oneri dei tagli (Grecia ad essmpio) e quindi perché mai dovremmo ritenerlo una sede ormai inutile ? Altro discorso è porsi seriamente il problema di arrivare a regole di livello sovranazionale, europee e mondiali, cosa assolutamente necessaria. L’Italia purtroppo occupa oggi una posizione ridicola perchè si oppone a tutti i tentativi di stabilire regole a livello europeo, salvo lasciare il passo alle avventure finanziarie di Gheddafi. La scusa tanto usata che l’Europa non vuole non tiene più, si può promuovere o no una politica europea ? L’Europa potrebbe patrocinare un nuovo rapporto con altre aree a partire da Cina, India, Brasile, ecc. La debolezza di una politica europea lascia spazio all’egemonismo tedesco che con l’ossessione dei conti in ordine in realtà impone regole che sono più favorevoli a chi le propone. Il rischio di un’Europa che sia un’area del marco allargata è reale, ma questo non dipende tanto dai tedeschi quanto dalla debolezza delle posizioni del resto dell’Europa.
E’ evidente che un ruolo regolatore di livello europeo è un passaggio importante, diffcilmente risolvibile con la creazione di nuove autorità europee destinate a coesistere con quelle nazionali e con i limiti di interventi che non affrontano i nodi dei problemi. Eppure un’Europa diversa, che riprende il filone della guida politica dei processi potrebbe essere protagonista di una nuova regolazione mondiale di cui c’è assoluto bisogno. Quindi Stato, Europa, Internazionale sono tre livelli diversi di intervento e regolazione per fermare lo scaricabarile che vede ogni volta che non si vuole scegliere attribuire la responsabilità all’altro livello. La colpa è dell’Europa, degli Stati, ecc.
La crisi finanziaria ha messo in ginocchio i bilanci pubblici, ha creato una voragine di disoccupazione, spiazzato le attività reali. La ripresa deve essere di qualità. La ripresa economica non può essere un tornare a prima, rimisurando il Pil nello stesso modo, senza affrontare i problemi della qualità dello sviluppo. Una nuova economia, quale gerarchia dei consumi, sono i temi sul tappeto.
La Tobin tax è un granello ma può essere molto utile, a condizione che ciascuno faccia la sua parte e gli USA non siano più prigionieri di una primazia mondiale che non sono più in grado di reggere alla vecchia maniera.
Alfiero Grandi